III (1)

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— Accidenti! — disse Anton all’improvviso. — Dimka, scusami, per favore. Probabilmente ti serve l’analizzatore per la traduzione.

— Per quale traduzione? — chiese Saul. Vadim si strofinò il mento.

— Dell’analizzatore posso anche fare a meno, — disse lentamente, — ma senza i mnemocristalli all’inizio non me la posso cavare. Bisogna che qualcuno faccia un salto all’astronave.

— Quanti te ne occorrono? — disse Anton, e intanto scendeva dal bioplano.

— Una coppia sarà sufficiente. Solo, prendila con le ventose, per non doverla tenere in mano.

Anton corse sulla neve fino all’astronave.

— Di che cosa stavate parlando? — si informò Saul.

— Ci sarà bisogno di entrare in contatto in qualche modo con la gente, sempre che riusciamo a trovarla, — rispose Vadim.

— E — Saul mosse leggermente le dita — ne parla come di una cosa da nulla?

Vadim lo guardò con aria meravigliata.

— E come ne dovrei parlare?

— Beh sì, certo, — disse Saul.

«Che strano tipo, — pensava Vadirn. — Possibile che tutta la vita se ne sia stato seduto nel suo studio ad ascoltare Mendelssohn?»

— Saul, — disse, — dopo i lavori di Sugimoto, entrare in rapporto con altri umanoidi è un problema puramente tecnico. Non si ricorda come Sugimoto riuscì a comunicare con gli abitanti di Tagora? Quella è stata una grande vittoria, se ne parlò e se ne scrisse molto…

— Ma certo! — disse con entusiasmo Saul. — Come si potrebbe dimenticarlo! Ma io pensavo, chissà perché, che… ne fosse capace solo Sugimoto.

— No, — disse Vadim con noncuranza. — Può farlo qualsiasi linguista strutturale.

Anton tornò, porse a Vadim la scatola con i cristalli e si sistemò al suo posto.

— Avanti, — disse e guardò Saul. — Che cosa è successo?

— Che cosa poteva succedere?

— Mi sembrava… Beh, non ha importanza. Avanti.

— Senti, — disse Vadim, guardando una collinetta di neve che si notava appena oltre la navicella. — Non è bello lasciarli così. Non sarà meglio seppellire prima quei ragazzi?

— No, — disse Anton. — A rigore, non ne abbiamo nemmeno il diritto.

Vadim capì. Non sono morti terrestri e non tocca a noi seppellirli secondo le nostre leggi. Afferrò il manubrio e accese il motore. Il bioplano decollò dolcemente e si tuffò nella bianca foschia.

Vadim sedeva, curvo come sempre, e muoveva appena appena il volante, per controllare la tenuta d’aria. La neve gli correva incontro. Vadim vide solo una cometa bianca dalle mille code, il cui nucleo gli navigava lentamente davanti agli occhi. Accese gli schermi radar.

— A che servono questi schermi? — chiese Saul da dietro.

Vadim spiegò:

— Non vedo niente, e inoltre la neve avrebbe potuto coprirli.

— Grazie, — disse Saul. — Ho capito.

Il bioplano uscì dalla tormenta di neve. Si trovava ora su una piana collinosa. Vadim aumentava a poco a poco la velocità, il motore fischiava sordo, e sotto la chiglia passavano vorticose le cime tondeggianti dei colli. Il cielo era tutto bianco, bassa sull’orizzonte, a destra, splendeva una macchia accecante, l’EN 7031, e a nord si distinguevano chiaramente i contorni di una catena montuosa. La macchia accecante si spostava lentamente verso destra e verso le loro spalle: il bioplano stava descrivendo un arco intorno all’astronave del raggio di dieci chilometri. Davanti, a destra e a sinistra c’erano solo colline, colline e ancora colline. Anton disse all’improvviso:

— Guardate, una mandria!

Vadim frenò e tornò indietro. Il bioplano rimase sospeso, immobile. In una gola fra le colline si muoveva svelto un gruppetto di animali. Si trattava di quadrupedi, di non grandi dimensioni, che sembravano cervi senza corna, e si sforzavano saltando di avanzare nella neve, rovesciando all’indietro le lunghe teste dalle narici nere. Le zampe sottili si incagliavano nella neve alta, e gli animali cadevano, rotolavano su se stessi, sollevavano nubi di polvere di neve, poi si rialzavano e riprendevano a correre, incurvandosi a ogni salto. Lasciavano dietro di sé solchi di neve smossa. E dietro a questo solco, con i lunghi colli chini, si affrettavano sulle lunghe zampe nude enormi uccelli simili a struzzi. Solo i becchi di questi uccelli erano diversi da quelli degli struzzi, poderosi, gobbi, con la terribile punta rivolta all’ingiù.

Vadim scese in picchiata e sorvolò la gola. La mandria continuò a correre sotto il bioplano, non lo notò nemmeno, ma gli uccelli — erano tre — si fermarono di scatto, si sedettero sulle zampe ripiegate e, sollevate le teste, spalancarono il terribile becco. Che battuta di caccia, pensò di sfuggita Vadim, che battuta di caccia si sarebbe potuta organizzare! Alzò di nuovo il bioplano e cominciò a manovrare a saliscendi. Si abbassò fin quasi a sfiorare i becchi mostruosi, che schioccarono con un colpo secco. Ora il bioplano compiva balzi di due chilometri, volando verso il cielo basso, e ogni volta la pianura si dispiegava sotto di loro, e si vedeva che per decine di chilometri intorno si stendeva un deserto nevoso.

— Le cose si mettono male, — borbottò Saul.

— Perché?

— Gli uccelli…

Ma guarda un po’ che civiltà, pensava Vadim. Ricerche non ne hanno organizzate. Hanno fatto uscire dei ragazzini nudi, disarmati. Qui, probabilmente, senza armi non si può fare nemmeno un passo. Eppure erano dei ragazzini coraggiosi…

Il bioplano terminò il giro di dieci chilometri, e ne iniziò un secondo con un raggio di venti chilometri. E subito Anton disse:

— Ecco da dove vengono… Piega a destra di trenta gradi!

Al margine della pianura, sotto una catena di monti grigio-azzurri, si scorgevano appena delle macchie scure di forma regolare.

— Sembra un grosso centro abitato, — disse Saul. — Avete un binocolo qui?

Il riflettore di bordo disperdeva la foschia, e Vadim, chino sul binocolo, distingueva il profilo di edifici, di mura menate e di cupole.

— Una città, — disse. — Che cosa facciamo?

— Una città? — fece eco Saul. — Curioso. E quanto dista?

— Circa quindici chilometri.

— Così, dunque, dalla città alla navicella ci sono trenta chilometri… Una persona allenata li potrebbe fare perfino a piedi nudi.

Vadim sussultò.

— Non ci tengo a provarlo, — borbottò.

Il bioplano, scrollato dalle raffiche di vento, stava ora a una ventina di metri da terra. Come è tutto assurdo, pensava Vadim. Dove sono le spedizioni di ricerca? Dove sono i bioplani e gli elicotteri con i volontari? La gente muore assiderata vicino alla città, e qui per un raggio di decine di chilometri non c’è anima viva, eccetto quegli uccellacci. E quegli uccelli qui non ci dovrebbero proprio essere. Avrebbero dovuto sterminarli da cento anni, e non organizzare così vicino una riserva naturale di rapaci. E perché Anton temporeggia? Perché non andiamo in città a mettere gli abitanti sulla strada della verità? In fin dei conti le formalità del primo approccio possono essere trascurate, vista la situazione. Si girò a guardare Anton.

Anton era incerto. Sedeva dritto, con gli occhi socchiusi e le labbra serrate. Aveva questa faccia quando risolveva fra sé e sé qualche problema di navigazione spaziale.

— Ebbene, capitano? — disse Vadim.

La faccia di Anton riacquistò l’espressione solita.

— Secondo le regole, — cominciò, — ora dovremmo tornar subito all’astronave. Ma… Va’ avanti. Rimani alla periferia. Tieniti più in alto.

Il bioplano in tre balzi fece la distanza che lo separava dalla città, e già alla fine del secondo Vadim capì che non si trattava di una città. In ogni caso, capì subito perché nessuno si preoccupava della sorte dei ragazzi scomparsi.

— Qui si è verificata un’esplosione tremenda, — borbottò Saul da dietro.

Il bioplano si fermò sopra il bordo di una buca gigantesca, che somigliava ai cratere di un vulcano attivo. La buca, ampia mezzo chilometro, era piena fino all’orlo di un pesante fumo che si muoveva. Il fumo era grigiastro, si stratificava pigramente e oscillava e doveva essere molto più pesante dell’aria, perché nemmeno una voluta si innalzava sopra la buca. Da lontano sembrava che non fosse fumo, ma qualcosa di liquido. Sui bordi della buca c’erano delle rovine, ricoperte di neve. Dai cumuli di neve sbucavano resti corrosi di pareti policrome, torri inclinate, costruzioni metalliche contorte, cupole sfondate.

Vadim guardava sbalordito. Saul biascicò:

— Beh, queste cose le conosciamo… Un bombardamento… I depositi sono saltati… e da poco tempo; il fumo non si è ancora disperso, là c’è qualcosa che brucia.

Vadim scosse il capo.

— In questa città non c’è vita. Gli abitanti sono scappati via. Strano che ne abbiamo trovato solo cinque.

— Gli altri sono lì, — disse Saul, guardando la buca.

— Questa non è una civiltà, è uno scandalo, — gridò Vadim.

— Ma che razza di imbecilli! Chi è che si mette a fare esperimenti con gli esplosivi in una città? Bisogna proprio essere l’ultimo…

Anton disse piano:

— Arrivano delle macchine…

Da nord giungeva fino alla buca il nastro di una strada, così sottile che si notava appena. Su di essa strisciavano fitti e senza fretta dei puntini neri. Aha, pensò Vadim, dunque non è ancora tutto perduto. Girò il bioplano e sorvolò la buca; videro una magnifica autostrada che finiva proprio dentro il fumo, e sull’autostrada una colonna senza fine di macchine occupava tutto il nastro stradale. In schiera compatta venivano da nord, solo da nord, macchine verdi basse, che parevano normali automobili a propulsione atomica, ma senza parabrezza; piccole macchine bianche e azzurre, che si trascinavano dietro una lunga coda di rimorchi vuoti; macchine arancioni che parevano sintetizzatori da campo; enormi cingolati neri a torre e piccole macchine con lunghe ali dispiegate. Tutte avanzavano in buon ordine sulla strada, mantenendo sempre la stessa distanza, e, una dopo l’altra, si nascondevano nel fumo grigio-azzurro della buca.

— Sono senza pilota, — disse Vadim.

— Sì, — disse Anton.

— Dunque, c’è qualcuno che le manda. Probabilmente per i lavori di ricostruzione. E troveremo della gente all’altro capo della strada… — Vadim si interruppe. — Senta un po’, Saul, — disse, — c’erano macchine del genere al tempo dei sacchi di juta?

Saul non rispose. Guardava in basso come incantato e in faccia gli si leggevano ammirazione ed entusiasmo. Alzò su Vadim gli occhi stralunati. Le sopracciglia cespugliose erano irte.

— Che tecnica! — disse. — Che processione epica! Che proporzioni grandiose! Non se ne vede la fine!

Vadim si stupì e guardò pure lui in basso.

— Ma che cosa c’è di straordinario? — chiese. — Ah! Le proporzioni! Sì, le proporzioni sono assurde. Per ricostruire la città basterebbe una dozzina di robot.

Guardò di nuovo Saul. Saul sbatté in fretta le palpebre.

— A me invece piace, — disse. — È molto bello. Possibile che non veda com’è bello?

— Vadim, — disse Anton, — segui la strada. Visto che abbiamo iniziato, cerchiamo di capirci qualcosa.

Vadim accelerò. In basso il torrente delle macchine si fuse in un nastro multicolore.

— Ecco, ora è bello, — disse Vadim. — Ma lei, Saul, non mi ha risposto. Sono compatibili i sacchi di juta con questa tecnica?

— E perché no? Dalle città distrutte la gente è scappata così com’era. Quanto la preoccupano quei sacchi di juta! I sacchi di juta sono esistiti per alcuni secoli. Sono una cosa comoda e di poco prezzo. Potevano servire per portare i ceppi, ad esempio.

— Quali ceppi?

— I ceppi di legno. Per riscaldare il bagno.

Vadim ricordò la storia del foglio bagnato e rimase zitto, guardando avanti. Non si vedeva la fine né della autostrada né della colonna di macchine. Da entrambi i lati della strada fino all’orizzonte si stendeva una pianura di neve intatta. Vadim accelerò ancora. Che razza di lavoro assurdo, pensava. Si gettano nel fumo come in un abisso. Calcolò le dimensioni approssimative della buca e la quantità di macchine che vi finivano dentro. Non aveva proprio senso. Comunque io non sono ingegnere. Un qualsiasi umanoide di Tagora — là erano tutti ingegneri — avrebbe detto che questa strada non era altro che un grande nastro trasportatore, che portava i pezzi di una macchina di medie dimensioni fino a un reparto sotterraneo di montaggio. E invece un pastore del pianeta Leonida avrebbe pensato che si trattasse di un gregge di animali, inviato dal pascolo al mattatoio.

— Anton, — chiamò. — Te lo immagini un Leonidiano al posto nostro?

Anton rispose:

— Un Leonidiano scemo direbbe che è tutto chiaro. E uno intelligente che i dati sono insufficienti.

Sì, i dati erano insufficienti. Tutte le macchine vanno verso sud e non ne torna indietro neppure una. Se veramente vanno a ricostruire la città, allora fungono loro da materiale di costruzione. E perché no?

— Sapete, — disse all’improvviso Saul, — ho addirittura un po’ di paura. Quanti chilometri abbiamo già fatto? Quaranta? E ci sono ancora macchine che vanno e vanno.

— Avrebbero fatto meglio ad utilizzare questa tecnologia per cercare i dispersi, — osservò Vadim.

— No, lei si sbaglia, — obiettò Saul. — In questi casi non ci si occupa del singolo individuo.

— Come sarebbe a dire, non del singolo individuo? Per chi ricostruiscono la città? A quei ragazzi la città non serve più…

Saul scosse la mano con aria seccata.

— Durante l’esplosione ne sono, probabilmente, morti a decine di migliaia di quei ragazzi. Peccato, certo, però non è il caso di occuparsi oltre di loro.

Vadim sussultò facendo sbandare il bioplano.

— Mi scusi, Saul, ma il suo comodo studio e la storia hanno avuto su di lei un effetto terribile. Lei fa dei ragionamenti inauditi. Adesso magari ci verrà anche a dire che il fine giustifica i mezzi.

— A volte li giustifica, — assentì Saul freddamente.

Vadim si trattenne. È un fossile di un’altra epoca, pensò. Ma prova un po’ a lasciarlo senza calzoni in mezzo alla neve, e vedrai come si offende che tutta la tecnologia del pianeta non corra in suo aiuto! A questo punto Vadim scorse una traversa e frenò bruscamente.

Il sentiero partiva dalla strada principale e andava verso oriente, zigzagando fra le colline.

— È la prima strada in un’altra direzione, — disse Vadim. — Cambiamo rotta?

— Non vale la pena, — disse Saul. — Che cosa potrebbe esserci di interessante?

Anton era indeciso. Ma come tentenna, pensò con ira Vadim. Sembra proprio un’altra persona.

— Allora? — disse. — Io propongo di continuare per la strada principale.

— Anch’io, — disse Saul. A tornare indietro facciamo sempre in tempo. Non è vero, Vadim?

— Va bene, vola dritto, — disse incerto Anton. — Vola dritto. Però… tenete presente… Va bene, vola dritto.

Vadim di nuovo slanciò il bioplano lungo la strada.

— Ma che cosa hai oggi, Anton? — gli chiese. — Sei incerto come un paladino al bivio: se vai a destra perdi il bioplano, se vai a sinistra, la vita…

— Avanti, guarda avanti, — rispose Anton con tono tranquillo.

Vadim si strinse nelle spalle e con ostentazione cominciò a guardare davanti a sé. Cinque minuti dopo vide una macchia grigia.

— Di nuovo una buca piena di fumo, — disse.

Era esattamente uguale a quella di prima. I bordi erano coperti di neve, su di essa ondeggiava pesantemente lo stesso fumo grigiastro, e dal fumo, come un torrente inesauribile, uscivano le macchine.
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