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VI

— Guardi, Anton, — disse Saul. — Anton! È svenuto, vede?

— Dorme, — rispose Anton, osservando attentamente la ferita. La ferita era sfilacciata e piuttosto profonda. La spada aveva colpito sotto le costole, e si era insinuata fra i fasci muscolari. Anton sospirò di sollievo. Saul, che gli stava alle spalle, sussurrò ansando:

— È grave?

— No, è una sciocchezza, — disse Anton. — Fra un’ora starà bene. — Scostò Saul. — Si sieda, per favore.

Saul rioccupò la sua poltrona e si mise a fissare con rabbia il prigioniero immobile. Anton aprì senza fretta uno zaino, tirò fuori un barattolo di colloide e ne spalmò sulla ferita una porzione abbondante. La pomata arancione divenne subito rosa, e si coprì di grinze rosee come la panna sul latte. Ecco il sangue, pensò Anton.

Dimka ha una salute di ferro! Guardò il volto di Vadim. Era un po’ più pallido del solito, ma calmo e disteso, come soleva esserlo nel sonno. E respirava, come sempre, col naso, profondamente e silenziosamente. Anton posò le dita ai lati della ferita e chiuse gli occhi.

Ogni pilota spaziale era tenuto ad apprendere i primi elementi di psicochirurgia. Praticamente ogni pilota sapeva incidere e ricucire il tessuto vivo, utilizzando la risonanza psicodinamica. Ciò richiedeva molta tensione e concentrazione. Negli ospedali si adoperavano i generatori neuronici, ma durante le spedizioni il pilota doveva valersi dei suoi soli mezzi mentali, come un antico stregone. Ogni volta Anton provava compassione per gli stregoni.

Sentì come in sogno che alle sue spalle Saul si agitava sospirando ed il prigioniero borbottava qualcosa fra i singhiozzi. Dal prigioniero veniva uno sgradevole odore acre che riempiva la cabina.

Anton aprì gli occhi. La ferita si era chiusa, spremendo fuori il colloide, ora c’era soltanto una cicatrice rosea. Basta così, pensò Anton. Altrimenti non riuscirò a guidare il bioplano. Era tutto bagnato.

— Ho finito, — disse, tirando il fiato.

Saul si alzò e guardò la ferita.

— Chi ci capisce è bravo, — brontolò. — Ma come ha fatto?

Anton si guardò intorno e sussultò. Dall’esterno, attraverso l’oblò, lo fissavano delle facce orribili, magre, dalle guance incavate e dalle labbra arricciate sui denti. Ispiravano una paura atavica, come morti che si fossero levati a dare un’occhiata dentro le case dei vivi. Anton si sentì percorrere da un brivido. Saul inarcò le sopracciglia folte e minacciò col dito. Mani ossute cominciarono a battere senza rumore sulla cappotta.

— Andate a casa! A casa! — disse forte Saul.

Anton cominciò a rivestire Vadim.

— Ora decolliamo, — disse.

— Li ammazzerete tutti.

Anton scosse la testa e occupò il sedile di primo pilota. Il bioplano vibrò e cominciò a sollevarsi lentamente. Le facce all’esterno scomparvero. Una lunga mano scheletrica dalle unghie rotte scivolò sul finestrino e scomparve a sua volta.

Girato il bioplano in direzione dell’astronave, Anton accelerò. Aveva fretta. Era già mezzanotte.

— Cosa ci avranno trovato in lui? — borbottava Saul. — È un nazista, un animale, l’ho visto io stesso come punzecchiava quegli uomini con la picca per farli andare più in fretta.

Anton taceva.

— Oh Signore! — esclamò Saul. — È pieno di bestiacce.

— Di che cosa?

— Di pidocchi, direi. Per prima cosa bisognerà lavarlo e disinfettare tutto…

Eccone ancora una, pensò Anton. Saul, come se indovinasse i suoi pensieri, aggiunse:

— Non si preoccupi, lo farò io. Speriamo che non crepi di paura quando farà il suo primo bagno.

Anton guidava il bioplano alla velocità massima, tenendosi a cento metri di quota. La piccola luna bianca si trovava quasi allo zenit, la falce rossa della seconda luna era già tramontata, ed un terzo satellite, roseo e piatto, si stava levando sull’orizzonte bianco. Vadim si scosse, sbadigliò rumorosamente e borbottò: — Mi hai curato? — e di nuovo si addormentò.

— Che cosa sta facendo? — chiese Anton. Era tanto stanco che non aveva voglia di voltarsi.

— Chi?

— Il prigioniero.

— Sta sdraiato. Puzza. Da parecchio non sentivo un puzzo simile…

Da un pezzo, pensò Anton. A me non è mai capitato di sentirlo. E ne avrei volentieri fatto a meno… Saul ha ragione: avevano fatto male ad invischiarsi in quella storia. Saul è in gamba. Si trattava veramente di un sistema. Era il sistema dello schiavismo. Schiavi e padroni. Però io avevo sempre pensato che gli schiavi devoti si incontrassero solo nei libri dozzinali… Lo schiavo devoto. Che schifo! Va bene, però ormai è fatta, per tirarsi indietro è tardi e faremmo anche la figura degli sciocchi. Se non altro scopriremo come stanno le cose. Sì, ma non era quello l’essenziale… Anche se avessi capito subito che cosa sta succedendo qui, non avrei certo potuto voltare le spalle… alla conca, dove le macchine schiacciavano gli uomini… a quel villaggio sudicio… Interessante, avrebbe tollerato il Consiglio Mondiale l’esistenza di un pianeta basato sullo schiavismo? Sentì improvvisamente tutta l’enormità del problema. Finora questa alternativa non si era mai presentata: si poteva o no intervenire nelle sorti di un altro pianeta? Gli abitanti di Leonida e di Tagora erano troppo diversi dagli uomini. La psicologia dei Leonidiani era ancora un mistero, e nessuno poteva dire quale fosse il regime sociale sul loro pianeta… Quanto agli umanoidi di Tagora, avevano da chiedere tanto poco alla natura, che non si capiva come avessero fatto a sviluppare la loro tecnica… Ma qui, su Saul, il problema era completamente diverso. Non c’era nessun altro posto in cui i rapporti sociali assumessero una forma tanto mostruosa e tuttavia, a quanto pareva, tanto universalmente accettata. I Sauliani parevano fratelli degli uomini, fratelli ancora molto giovani, immaturi e crudeli… E come se non bastasse ci si mettevano pure quelle stupide macchine degli alieni…

In lontananza, sulla piana azzurra comparve un puntolino nero. Ecco l’astronave, pensò Anton. E lì accanto, sotto la neve, c’erano i morti. Che strano, è passato appena un giorno e già mi sono abituato. Come se tutta la vita non avessi fatto altro che girare fra cadaveri nudi nella neve. L’uomo si adatta con facilità. Adattamento psicologico. Strano. Forse dipende dal fatto che in fin dei conti non sono uomini. Sulla Terra, sarei già diventato pazzo. No, sarei rimasto intontito…

Diminuendo la velocità, descrisse un cerchio intorno alla navicella.

Vedere il cono nero, che conosceva così bene, lo confortò. L’astronave sulle colline azzurre gettava due ombre dai contorni netti: una breve e nera, l’altra lunga e rossa. Il bioplano atterrò davanti all’entrata. La neve, gelando, aveva formato intorno alla nave un campo di ghiaccio. Anton si voltò verso Vadim e gli diede una manata sul ginocchio.

— Che c’è? — chiese Vadim con voce assonnata.

— Sveglia!

— Lasciami in pace…

— Alzati, Dimka. Siamo arrivati all’astronave.

— Adesso, — disse Vadim, aprendo le labbra con uno schiocco. — Ancora un minuto…

— Gli faccio il solletico? — propose Saul.

Vadim aperse subito gli occhi e si alzò.

— Ah sì, l’astronave… Capisco.

Uscirono sul ghiaccio scivoloso. L’aria gelata mozzava il fiato. Si sentiva Vadim che batteva i denti. Saul afferrò il prigioniero per il bavero. Che starà pensando quel poveretto? si chiese Anton.

— Salite, — disse Saul, — io lo porto direttamente al bagno. Entrarono nell’astronave, chiusero l’oblò e Anton, sospingendo Vadim, sali verso il quadrato. Vadim dormicchiava, battendo i denti. Dal piano inferiore risuonò un urlo terribile del prigioniero. Vadim si riscosse.

— Che cosa gli sta facendo? — chiese allarmato.

— Lo vuole lavare, — spiegò Anton. — È pieno di parassiti.

Si sentì la voce di Saul.

— Cammina con le tue gambe, la fatica non ti ammazzerà…

La porta del bagno sbatté. Anton e Vadim entrarono nel quadrato e si gettarono sulle poltrone.

— Cara, vecchia astronave, — disse Vadim. — Come si sta bene, come è pulita!

Anton stava ad occhi chiusi.

— Ti fa male? — chiese.

— Mi prude…

— Vuoi dire che va tutto bene… Senti, cosa ti occorre per lavorare?

— Il calcolatore, — rispose Vadim. — Metà della sua memoria interna. Entrambi gli analizzatori. Molto caffè per me e qualche leccornia per il prigioniero. Fra un paio d’ore te lo troverai qui davanti a parlare del senso della vita.

Dal piano inferiore giunsero di nuovo grida, rumore di oggetti smossi e scalpiccio di piedi nudi.

— Dove vai? — tuonò Saul. — Vieni qui… Sta’ fermo!

— Com’è bravo a lavarlo, — disse Vadim con ammirazione. — Forse gli è andato un po’ di sapone negli occhi… Però Saul sbaglia il tono della voce. Per il prigioniero gli urli non sono altro che implorazioni. Il tono di comando è questo: — e Vadim, allungato il collo, emise degli insopportabili strilli queruli.

— Sembri un gattino a cui abbiano pestato la coda, — disse Anton.

— Sì, è lo stesso tono!

— Va bene, ti lascerò la sala dei comandi… Ti porterò tutto il necessario.

Vadim lo scrutò con attenzione.

— Ma tu, caro mio, sembri un limone spremuto, — disse.

— Beh, un po’ lo sono… La tua ferita non era grave, ma mi sono stancato. Sai, stanca molto.

— Mettiti a dormire. Me la cavo da solo. Saul mi porterà tutto.

— Non preoccuparti, — disse Anton. — Questo è lavoro mio. Va’ a prepararti, — aggiunse scuotendo una mano.

Vadim si alzò.

— Ti consiglio di dormire un po’, — si avviò verso la sala dei comandi, ma ad un tratto si fermò. — Hanno poi preso i vestiti?

Lì per lì Anton non capì, ma poi disse:

— Per la verità non lo so… Non ricordo… Però erano molto arrabbiati con noi.

— Che razza di pasticcio! — disse Vadim. — Non ci capisco niente. Perché mi ha infilzato con la spada?

Scosse il capo e si diresse verso la sala dei comandi. Anton si addormentò subito. Sognò di essere andato in cucina, di aver preparato molto caffè, di aver portato la caffettiera e le conserve nella sala dei comandi, di essersi sentito dire di levarsi di torno, di essersene andato nella sua cabina e di essersi seduto al tavolino a scegliere il programma del volo di ritorno. Però aveva un gran sonno, e non riusciva a trovare altro che i programmi dei suoi voli precedenti. Poi Saul lo svegliò.

— Ecco, — disse Saul.

Davanti ad Anton c’era un biondino snello in calzoncini e in giubbotto sintetico, dagli occhi neri e spaventati.

— Le piace? — chiese Saul sarcastico.

Anton si mise a ridere.

— È una bella razza, — disse. — Salve, fratello minore.

Il fratello minore lo fissava con occhi tondi di paura. Sembra simpatico, pensò Anton.

— E questo lo aveva sotto la pelliccia, — disse Saul e posò sul tavolo un pacchetto rigido.

Il prigioniero fece per slanciarsi sul pacchetto.

— Altolà, — fece Saul con voce minacciosa. — Di nuovo! Ti faccio vedere io!

Il prigioniero rannicchiò la testa nelle spalle. Evidentemente, era riuscito a capire il tono di voce di Saul. Anton prese il pacchetto, lo guardò e lo aprì. In una busta di ottimo cuoio c’erano un foglio ripiegato varie volte, un disegno e qualche pezzo di cerotto insanguinato.

— Capisce? — disse Saul. — Hanno strappato i cerotti ai feriti.

Anton ricordò gli uomini maciullati e strinse i denti.

— Questo deve essere il rapporto — disse dopo una pausa — sul nostro arrivo. Vadim! — chiamò.

Il prigioniero improvvisamente si mise a parlare. Parlava in fretta, dandosi dei pugni sul petto. Il suo volto esprimeva terrore e disperazione, in strano contrasto con le intonazioni brusche e persino sarcastiche della sua voce. Vadim scese nella sala e si fermò alle spalle del prigioniero, tendendo le orecchie. Il prigioniero tacque e si coprì il volto con le mani.

— Guarda, Vadim, — disse Anton, porgendogli il foglio.

— Oh! — disse Vadim. — Una lettera! Magnifico! Questo ci riduce il lavoro a metà!

Prese il prigioniero per una manica e lo condusse nella sala dei comandi, guardando nel frattempo il foglio. Il prigioniero lo seguì docilmente. Saul studiava attentamente il disegno.

— Non sono uno specialista, — disse infine, — ma, secondo me, è uno schizzo esatto del carro armato che abbiamo ispezionato nella conca. Se lo ricorda?

Passò il disegno ad Anton. Il disegno era stato fatto con molta cura con inchiostro azzurro, ma sulla carta c’erano molte ditate. Era la pianta, probabilmente esattissima, della cabina del veicolo. Alcuni fori erano contrassegnati da rozze crocette rosse, altri erano cancellati. Anton sbadigliò e si stropicciò gli occhi. Ma guarda, pensò fiacco. Che bei disegni fanno gli schiavisti.

— Senta, capitano, — disse Saul, — vada a dormire. Tanto finché il nostro linguista non avrà finito, qui non c’è bisogno di lei.

— Crede?

— Ne sono sicuro.

La voce di Vadim dalla sala dei comandi ordinò:

— Caffè e marmellata.

— Arriva! — gridò Saul. — Vada Anton, vada.

— Non me ne vado, — disse Anton. — Resterò qui.

Abbassò le palpebre e smise di opporre resistenza. Dormì un sonno inquieto: di tanto in tanto si svegliava e apriva gli occhi. Vide Saul che passava in punta di piedi reggendo in una mano un barattolo vuoto e nell’altra una caffettiera. Vide poi Saul che portava un vassoio nella sala dei comandi, e nel quadrato giunse un odore di pomodoro. Poi Saul sedette al tavolo e si mise a succhiare la pipa vuota, fissando attentamente Anton. Dalla sala dei comandi giungevano voci monotone. «Su-o… Mu-u… Bu-u… » diceva Vadim, e l’analizzatore ripeteva meccanicamente: «Su-a… Ma-a… Bu-a… Lavorare, karosuu… Lavoratore, karobu… Diventare un lavoratore, karomuu …». Anton si addormentava e tornava a svegliarsi. La voce di Vadim aleggiava incomprensibile: «Rupe lucente, grande e possente… idai-hikari… tika — udo …», e la voce stridula del prigioniero correggeva: «Tiko-o… udo-o …». Vadim gridava: «Saul! Caffè!». «E già la terza caffettiera!» Saul borbottava scontento.

Poi Anton si svegliò e sentì che non aveva più voglia di dormire. Saul non era nella sala. Dal piano di sopra echeggiava la voce ormai rauca di Vadim: «Sorinaka-ba… torunaka-bu… capunori-cu …». Il prigioniero tubava qualcosa in risposta con voce di basso. Anton guardò l’orologio. Erano le tre del mattino, ora locale. Bravo il nostro superlinguista, pensò Anton con rispetto. Improvvisamente fu preso dall’impazienza. Bisognava concludere.

— Dimka! — gridò. — Come va?

— Ti sei svegliato? — rispose Vadim senza fiato. — Ora scendiamo. Aspettavamo che fossi pronto.

Saul si affacciò sulla soglia della sua cabina, dalla quale uscivano nuvole di fumo.

— È già ora? — si informò.

— Venga Saul, — disse Anton. — Ora cominciamo.

Saul sedette in poltrona e gettò sul tavolo il disegno. Dalla sala dei comandi scese barcollando il prigioniero. Aveva le guance sporche di marmellata. Si fermò senza guardare nessuno e cominciò a lanciare occhiate di canina venerazione verso Vadim, che stava scendendo con la grossa scatola lucida dell’analizzatore. Accostatosi alla tavola, Vadim posò l’analizzatore e crollò su una poltrona. Il suo volto esprimeva tripudio.

— Sono un genio! — comunicò con voce spenta. — Sono in-tel-li-gen-tis-si-mo! Sono una rupe grande e potente! Hikaritiko-udo !

A queste parole il prigioniero smise di leccarsi le dita e incrociò rispettosamente le braccia sul petto.

— Vedete? — esclamò Vadim, volgendo una mano nella sua direzione. Poi declamò:

Per qualsiasi occasione
C’è qui lo specialista:
L’astronave dispone
Del linguista superstrutturalista.

Anton lo guardò soddisfatto. Sulle tempie Vadim portava le piccole corna gialle dei cristalli mnemonici. Anche il prigioniero portava sulle tempie le piccole corna gialle dei cristalli mnemonici. Parevano dei giovani diavoli di buon carattere. No, il prigioniero sembrava piuttosto un vitello.

— Vi avverto, — dichiarò Vadim, — non bisogna rivolgergli domande astratte. È tonto come pochi. Ha una cultura da seconda elementare. — Si alzò e diede un paio di cristalli mnemonici sia a Saul che ad Anton. — Pensa solo in modo concreto. — Si girò verso il prigioniero: — Ringa bosi-ma ?

«Vuoi della marmellata?», capì Anton.

Il prigioniero sorrise eccitato e di nuovo incrociò le braccia sul petto.

— Ecco, vedete? — disse Vadim. — Vuole dell’altra marmellata. Ma gli toccherà aspettare un po’. Cominciamo.

Anton rimase imbarazzato. Si era accorto improvvisamente di non avere la minima idea sul modo di condurre un interrogatorio. Vadim e Saul lo guardavano attendendo l’inizio. Il prigioniero si dondolava a destra e a sinistra con aria tetra.

— Come si chiama? — chiese Anton con la massima delicatezza. La diffidenza e l’indubbia paura del prigioniero lo mettevano a disagio.

Il prigioniero lo guardò stupito.

— Haira, — rispose smettendo di dondolare.

«Del dan dei colli», capì Anton.
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