III (1)

[1] [2] [3]

III

Vadim uscì per ultimo dall’astronave e subito si rivolse a Saul:

— La cosa più semplice sarebbe di controllarlo sulle pagine di qualche antico vocabolario, Dal’ o Ušakov, per esempio. Ma a bordo…

A questo punto si accorse che Saul non lo ascoltava. Saul teneva lo skorcer pronto — con la canna sul braccio piegato — ed il suo viso era inquieto. Gli occhi correvano qua e là. Vadim si guardò svelto intorno e vide anche lui l’uomo.

— Guarda un po’, — disse, interdetto.

Anton si avvicinò all’uomo sdraiato a terra, mentre Saul rimaneva al suo posto. Possibile che l’abbia travolto con l’astronave durante l’atterraggio? — pensava Vadim atterrito. All’idea si sentì contorcere le viscere. Corse dietro Anton e si piegò anche lui sul corpo. Gli gettò solo un’occhiata, poi subito si alzò e cominciò a guardarsi in giro. Tutt’attorno si allungavano tetre colline ricoperte di neve e tutte uguali; il cielo era coperto di nuvole basse, e all’orizzonte si indovinavano i pallidi contorni di una catena di monti. Che pianeta triste, pensò.

E campi e montagne
Tutto pian piano la neve ha coperto…
E ora tutto è deserto…

Anton si inginocchiò e con cautela toccò la mano dello sconosciuto. La mano era piccola, bianca, con delle dita sottili che parevano di porcellana, le unghie lunghe avevano un riflesso d’oro.

— Allora? — disse Vadim e inghiottì.

Anton si alzò e con cura si levò la neve dalle ginocchia nude…

— È morto assiderato da qualche giorno. È anche molto deperito.

— Non c’è più speranza.

Anton annuì.

— Ormai è una pietra.

— Una pietra… — ripeté Vadim. — Come è possibile? Guarda, è solo un ragazzo… — si costrinse a guardare il viso del morto.

— Guarda, assomiglia a Valerij! Te lo ricordi Valerij?

Anton gli mise una mano sulla spalla.

— Sì, gli assomiglia.

— Mi sono così spaventato. Ho pensato di averlo urtato durante l’atterraggio.

— No, giace qui da almeno un paio di giorni. È caduto per la debolezza ed è morto assiderato.

— Ascolta, Anton, ma perché porta solo la camicia?

— Non lo so. Torniamo all’astronave.

Vadim non si mosse.

— Non capisco. Vuoi dire che non siamo i primi?

Si guardò intorno, cercando con gli occhi Saul. Saul non si vedeva.

— Anton, forse ti sei sbagliato? Forse si può ancora fare qualcosa?

— Andiamo, andiamo, Dimka.

— Ma, e lui…?

— Come faccio a saperlo? Andiamo.

Videro Saul. Scendeva lentamente lungo il pendio della collina, scivolando sulla neve bagnata. Rimasero fermi ad aspettare che si avvicinasse. Aveva un’aria tetra, sulle guance gli si scioglievano grossi fiocchi di neve. La neve gli arrivava alle ginocchia. Si avvicinò, si tolse di bocca la pipa spenta e disse:

— È una brutta faccenda, ragazzi. Là ce ne sono ancora quattro, — guardò il morto. — Pure loro seminudi. Che cosa pensate di fare?

— Torniamo all’astronave, — disse Anton, — e riflettiamo con calma.

Nel quadrato sedettero in poltrona e tacquero per un po’. Vadim tremava di freddo e, chissà perché, aveva molta voglia di parlare.

— Guarda un po’ che pianeta! — disse, serrando i muscoli delle mascelle. — Non ne avevo mai sentito parlare. Non si capisce niente. Chi sono? Da dove vengono? Eppure dicevano che qui non c’era mai stato nessuno. E soprattutto… un ragazzino. Un ragazzino qui come c’è finito? Tacque e chiuse gli occhi, cercando di scacciare la visione della faccia coperta di neve.

Anton si alzò e cominciò a girare intorno al tavolo, a capo chino. Saul riempì la pipa.

— Posso fumare? — chiese.

— Sì, prego, — disse Anton distratto. Si fermò. — Ora ecco cosa facciamo, — disse deciso. — Abbiamo un bioplano. Prendiamo cibi e vestiti e compiamo una perlustrazione intorno alla navicella. Sulle colline può essere che ci siano ancora dei vivi.

Nella voce gli risuonavano delle note dure sconosciute a Vadim. Vadim lo guardò con curiosità e Anton notò il suo sguardo.

— Vedete, compagni, — disse in tono più morbido, — la gita turistica non siamo riusciti a farla. Le circostanze, secondo me, sono eccezionali. Probabilmente mi toccherà dare ordini e a voi toccherà obbedire, — guardò Saul e allargò le braccia con aria colpevole. — Vede, Saul, non si può far altro…

— Sì, — disse Saul. — Sì. Certo. Sono pronto, capitano. Ordini pure.

— Ma hai già capito qual è la situazione? — chiese Vadim.

— Ne parliamo dopo, disse Anton. — Prima bisogna mettere in incubazione il bioplano. Vieni, Vadim.

Saul posò la pipa e si alzò pure lui, aggiustandosi sulla spalla la cintura della pistola.

— Grazie, Saul, ce la caviamo da soli, — disse Anton.

— Vorrei venire con voi, — disse Saul. — Non vi darò fastidio, capitano.

Tirarono fuori l’ovocellula e la misero sulla sommità della collina più lontana. La neve cadeva sempre più fitta, i fiocchi di neve solleticavano le guance, e Vadim se le strofinava nervosamente. Il vento soffiava e si sentiva freddo a star fermi a guardare Anton che senza fretta e con cura piazzava gli attivizzatori sulla superficie liscia dell’embrione meccanico. Il vento bruciava le braccia e le gambe nude, e Vadim pensò all’improvviso che, forse, chissà dove, al di là delle colline c’era altra gente che vagava a piedi nudi, incespicando nella neve alta, vestita solo di lunghe tuniche grige.

Anton si raddrizzò e soffiò sulle mani arrossate.

— Sembra che vada, — disse. — Controlla, Dima.

Vadim controllò la posizione degli attivizzatori. Era tutto in ordine. Ritornarono all’astronave. Saul veniva per ultimo; si teneva sempre dietro di loro. La navicella già accumulava energia, come una montagna nera si stagliava sul bianco, la cuspide inclinata seguiva l’invisibile EN 7031. Per la strada Vadim raccolse dei fiori che gli fecero pena, tanto erano miseri e pallidi.

E vivi e morti
pian piano la neve ha coperto
E tutto è ora deserto.

La neve cadeva sempre più fitta, e quando arrivarono all’astronave Saul disse:

— Presto tutto sarà ricoperto. Non sarebbe male fare l’autopsia.

— Perché, — disse Anton. — Ormai sono morti.

— Appunto. Bisognerebbe chiarire perché siano morti.

— Sono assiderati, — disse Anton. — E non abbiamo bisogno di nessuna autopsia.

— Mi sembrerebbe… — iniziò Saul, ma tacque e si infilò nell’oblò. Nel quadrato Anton disse:

— Cerchi di capire, io non sono un medico. Non… non voglio.

— Capisco, — disse Saul.

— Vadim, — disse Anton, — impacchetta le vettovaglie. Tutte le provviste disponibili. Saul, lei ha detto che sa cucire. Bisogna adattare le tute. Io prenderò i medicinali.

Le tute erano di misura unica, ma la differenza di altezza fra Saul e Anton era troppo grande. Bisognava accorciare la tuta di Anton e allungare quella di Saul. E fu subito chiaro che Saul non sapeva cucire. Si passava smarrito l’ago ultrasonico da una mano all’altra, gualciva e lisciava le tute, e guardava Anton con aria mortificata. Evidentemente, gli storici, seduti nei loro comodi studi, non avevano idea di cose così semplici. Probabilmente, quello che principalmente li interessava era come si faceva una volta. Toccò a Vadim prendere l’ago di Saul e mostrargli come funzionava. Con sua meraviglia, lo storico si dimostrò perspicace, e qualche minuto dopo ognuno assolveva il suo compito.

Saul disse, senza alzare la testa dal lavoro:

— Perché pensa, capitano, che ci siano ancora dei vivi?

— Non lo penso, — rispose Anton. — Lo spero.

Vadim finì di riempire il sacco, lo chiuse e sedette al tavolo.

— E quegli altri quattro, sono giovani pure loro? — chiese.

— Sì, — disse Saul. — Proprio dei ragazzi. Quasi degli adolescenti. Molto più giovani di voi.

— Cinque anni fa, — disse Vadim, — io e degli altri ragazzi volevamo prendere un’astronave e volare su Tagora. Naturalmente, non ce lo permisero… Forse, questi ci sono riusciti?

— Assurdo, — disse Anton. — L’astronave la può avere solo un pilota esperto. E che esperienza hanno questi… Dei ragazzini! Del resto è tutto assurdo. Hanno le unghie dorate! E delle strane camicie sul corpo nudo.. E la cosa più importante è: come hanno fatto a finire qui?

— Molto semplice, — disse Vadim. — Qualcuno si preparava a partire, ha lasciato l’astronave davanti a casa, loro si sono radunati di notte e sono partiti. Volevano fare gli esploratori. E qui sono scesi e si sono persi. È sopraggiunto il gelo. Ecco tutto.

— Quello che stai dicendo — disse Anton freddamente — è assolutamente impossibile. Anche se le cose fossero andate così, io lo avrei saputo certamente. Sono morti da qualche giorno. Sulla Terra avrebbero dato inizio a delle ricerche globali.

— E se fossero arrivati qui con qualcuno più anziano?

Anton tacque.

— Allora andiamo a cercare gli anziani, — disse alla fine.

— C’è una cosa che mi lascia perplesso, — disse Vadim. — Queste strane camicie…

— Non sono camicie, — disse Saul inaspettatamente.

I due si girarono verso di lui.

— Sono sacchi. Con dei buchi per la testa e le mani. Sono dei rozzi sacchi di juta. Ora non ce ne sono più, — sogghignò sinistramente. — Vede, Vadim, quei ragazzi avrebbero potuto procurarsi più facilmente uno skorcer od una batisfera, piuttosto che uno di quei sacchi. Perché c’erano molto, molto tempo fa. E non mi piace affatto che andassero in giro nudi e che invece dei vestiti avessero dei sacchi.

Vadim sentì che il cuore aveva smesso dibattere. Gli sembrava strano e terribile questo fatto dei sacchi di juta che erano esistiti tanto, tanto tempo fa. Aveva una sensazione non di pericolo, ma proprio di terrore. Come se all’improvviso davanti ai suoi occhi una persona cominciasse a invecchiare repentinamente, invecchiasse, invecchiasse e si mutasse in un vecchio rugoso e avvizzito. Si scrollò e la sensazione scomparve. Saul rivoltò la tuta, se la sollevò davanti con le braccia tese e la osservò.

— E perciò io non sono d’accordo con voi, — continuò. — Penso che siano indigeni. E… non so se mi capite… Al tempo dei sacchi di juta avvenivano delle strane cose. Mi pare che questi giovani siano stati spogliati e abbandonati qui nel deserto. Provi, Anton.

Anton prese la tuta.

— Dunque, secondo lei, su Saul esiste una civiltà? — chiese incerto. — Ed è ancora al tempo dei sacchi di juta?

— Come faccio a saperlo, capitano? Parlo solo di quello che vedo. Vedo dei sacchi di juta, so che sacchi di juta sulla Terra ai nostri tempi non ce ne sono. Dunque non sono dei terrestri. Forse, sono stati rapinati, o forse sono dei pellegrini. Dei fanatici. Andavano a venerare le sante reliquie, vestiti, secondo il voto, con dei sacchi, hanno smarrito la strada, sono capitati in una bufera di neve… Non so.

Tutto questo Vadim lo capiva poco. Tutte queste parole — «fanatici», «reliquie», «voto» — le conosceva, erano in qualche modo legate ai rituali religiosi, ma non avevano per lui nessun significato reale. Pensò di sfuggita, con ammirazione, che Saul evidentemente era un vero specialista. Ma non fu questo a colpirlo.

— Una civiltà, dunque? — disse. — Allora… Siamo venuti a fare una passeggiata e, fra una cosa e l’altra, abbiamo scoperto una civiltà! Non ci credo! — annunciò.

— Fra una cosa e l’altra, — disse Anton pensieroso. — Fra una cosa e l’altra? EN 7031 era nel programma di ricerca…

— Sì, l’hai detto. Ma la spedizione non ha avuto luogo.

— La spedizione non ha avuto luogo, ma, fra l’altro, EN 7031 si trova nell’elenco delle stelle situate sull’ipotetica rotta dei Nomadi dello Spazio.

— Non ho mai sentito parlare di un elenco simile, — disse Vadim.

— Esiste invece. L’elenco di Gorbovskij-Bader. Per cui, le possibilità di scoprire una civiltà c’erano, caro Vadim. E forse Saul ha ragione, sono dei ragazzi indigeni. Ma quale rapporto abbiano con i Nomadi dello Spazio, questo è un altro problema…

Vadim sedeva, con i gomiti appoggiati sul tavolo e tenendosi la testa con le mani. Ma che civiltà! Va bene, pensava, mettiamo pure che siano stati vittime dei banditi. Ma questa è una sciocchezza: dei ragazzi di sedici anni in buona salute si fanno spogliare senza opporre resistenza e, buoni buoni, muoiono congelati. Ma non sono certo dei fanatici! Si immaginò un fanatico. Era un vecchio calvo e macilento, con gli occhi da pazzo, e un’enorme catena arrugginita al collo. No, pensava. Ma che fanatici! Forse sono loro stessi dei Nomadi dello Spazio? Sì. Con dei sacchi di juta. Gli vennero in mente le costruzioni ciclopiche, lasciate dai Nomadi sul pianeta Vladislav, e fu colto da malumore, come gli accadeva sempre, quando si trovava alle prese con un problema per lui insolubile.

— Anton, — disse. — A che punto è il bioplano?

Anton guardò l’orologio.

— È ora, — disse. — Andiamo. Vestitevi e prendete uno zaino per uno.

— Vorrei una precisazione —, intervenne Saul. — Cosa dobbiamo cercare?

A Vadim parve che Anton tentennasse.

— Cercheremo altri infortunati.

Saul si abbottonò la tuta.

— E se, per fortuna, qui non c’è più nessun infortunato? Mi riferisco all’ipotesi dei rapinatori.

— Se ci trovassimo di fronte a questa ipotesi, non staremo certo a far cerimonie, — borbottò Vadim.

— In qualsiasi altro caso, — disse Anton chiaramente, — vi prego di non fare un movimento senza mio ordine.

Andò verso la porta.

— Non prendete un’arma? — chiese Saul.

— Non abbiamo bisogno di armi, — rispose Anton.

— Basta con i cadaveri qui, — disse Vadim.

Uscirono dall’astronave e subito sprofondarono nella neve alta. Il bioplano si vedeva appena, dietro la cortina bianca. Era un bioplano antigravitazionale Grillo, un’affidabile macchina a sei posti, molto popolare fra le truppe da sbarco e gli astronauti in esplorazione. Stava sul bordo di un’enorme fossa disgelata, da cui si innalzava un vapore denso, i suoi fianchi lisci erano ancora tiepidi e nella cabina faceva addirittura caldo.

Buttarono gli zaini nel bagagliaio e sedettero nella macchina sotto una cupola liscia e trasparente.
[1] [2] [3]



Добавить комментарий

  • Обязательные поля обозначены *.

If you have trouble reading the code, click on the code itself to generate a new random code.