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Anton inserì il pilota cibernetico e, con le mani incrociate sul petto, guardò pensieroso lo schermo visore. L’astronave andava verso nord lungo il meridiano. Intorno c’era il cielo viola della stratosfera, e molto più in giù biancheggiava il velo opaco delle nuvole. Questo velo sembrava liscio e piano, e solo qua e là si indovinavano le voragini dei giganteschi imbuti delle stazioni macrometeorologiche. I meteorologi, dopo aver lasciato piovere sull’Europa settentrionale, stavano spingendo in trappola le nuvole.

Anton rifletteva sulle stranezze umane. Ricordava i tipi curiosi che aveva incontrato. Jakob Osinovskij, il capitano dell’Hercules, non poteva sopportare i calvi. Li disprezzava proprio. «E non riuscirete mai a convincermi, — diceva. — Mostratemi piuttosto un calvo che sia un vero uomo». Probabilmente, i calvi gli richiamavano delle associazioni poco piacevoli, ma non disse mai a nessuno quali. Non cambiò idea neppure dopo che divenne calvo anche lui nella catastrofe di Sarandak. Esclamava soltanto con visibile amarezza: «Sono l’unico! Ricordatevelo, l’unico fra loro!».

Walter Schmidt, della base Hatterija, aveva uno strano atteggiamento verso i medici. «I medici… — diceva a mezza bocca con imbarazzante disprezzo. — Ciarlatani erano e ciarlatani sono rimasti. Prima c’erano le ragnatele polverose e le sanguisughe, e ora il campo psicodinamico, di cui nessuno sa niente. A chi deve interessare che cosa c’è dentro di me? I cefalopodi vivono migliaia di anni senza nessun medico e sono i dominatori delle profondità…»

Volkov si chiamava Drednout, e lui ne era molto contento: Drednout Adamovič Volkov. Kaneko non mangiava mai vivande calde. Ralf Pinetti credeva nella levitazione e si allenava assiduamente… Lo storico Saul Repnin ha paura dei cani e non vuole vivere con gli uomini. Non mi meraviglierei se non volesse vivere con gli uomini proprio perché ha paura dei cani. Strano, vero? Ma non per questo diventerà peggiore.

Stranezze… Non c’è nessuna stranezza. Ci sono solo ineguaglianze. Testimonianze esteriori di un’incomprensibile attività tettonica nelle profondità della natura umana, dove la ragione lotta fino alla morte contro i pregiudizi, dove il futuro lotta con il passato. Ma noi vogliamo per forza che tutti intorno a noi siano uguali, proprio come noi, li immaginiamo a misura della nostra debole fantasia… in modo da poterli descrivere nelle funzioni elementari dell’immaginazione infantile: lo zio buono, lo zio avaro, lo zio noioso, lo zio che fa paura, lo scemo.

Ma per Saul non è affatto strano aver paura dei cani. E a Kaneko non sembra strano non sopportare niente di caldo. Così come a Vadim non verrà mai in mente che i suoi stupidi versetti a qualcuno possano sembrare non divertenti ma strani: a Galja, per esempio.

Prendiamo ora me. Ecco, io mi preparavo a partire per Pandora. Se lo avesse saputo, diciamo, il capitano Malyšev, mi avrebbe guardato meravigliato e avrebbe detto: «Se vuoi riposarti, non c’è posto migliore della Terra. Se invece hai deciso di lavorare un po’, allora occupati della stella nera EN 8742, che è la prossima in programma, oppure della superstella EN 6124 che, chissà perché, interessa agli specialisti di Tagora». E Malyšev avrebbe avuto ragione. E perché Malyšev mi capisse e smettesse di guardarmi meravigliato, avrei dovuto dirgli che ho nostalgia della compagnia di Dimka e che Dimka ha voglia di andare a sparare ai Tachorg.

Anton sogghignò. Perché tutto è così complicato? Al giorno d’oggi volano tutti su Pandora, e una volta Galja aveva detto che lì ci sarebbe andata. Ora organizzano così i voli interplanetari. E i programmi si cambiano altrettanto facilmente. Riuscirei a confessare a Malyšev che tutto il problema è Galja? Perché l’uomo non impara a vivere con semplicità? Da chissà quali patriarcali abissi senza fondo strisciano continuamente fuori vanità, amor proprio e orgoglio offeso. E c’è sempre qualcosa da nascondere, c’è sempre qualcosa di cui vergognarsi.

Anton guardò il mazzetto di garofani, posato davanti allo schermo. Ah! Galja! pensò. Soffiò sullo schermo e sul vetro appannato dal vapore scrisse col dito: «Ah! Galja!…». Le lettere sparirono in fretta; non fece neppure in tempo a mettere il punto esclamativo. Poi si adagiò di nuovo nella poltrona e per la centounesima volta cercò di risolvere il problema in modo logico: «Io amo una ragazza, la ragazza non mi ama, ma ha simpatia per me. Cosa fare?».

«In realtà, che cosa cambierebbe se lei mi amasse? Potrei abbracciarla e baciarla. Potremmo stare sempre insieme. Ne sarei orgoglioso. È tutto, mi pare. È sciocco, ma è tutto. Semplicemente avrei realizzato un desiderio. Come tutto sembra meschino, quando ci ragioni su in modo logico! E in un altro modo io non so ragionare. Sto diventando un uomo vuoto, un cinico». Immaginò Galja mentre parlava, il capo leggermente piegato, gli occhi ombreggiati dalle ciglia… Perché tutto è organizzato in modo così sciocco: si può salvare una persona da qualsiasi disgrazia di poco conto, da una malattia, dall’indifferenza, dalla morte, e solo da una disgrazia vera — dall’amore — niente e nessuno la può salvare… Si troveranno sempre migliaia di consiglieri, e ognuno darà un consiglio a se stesso. Sì, e quello che soffre, lo scemo, non vuole lui per primo che lo aiutino, ecco il terribile.

— Permette, dove sta andando? — chiese Saul a voce alta.

— Alla cabina di comando, — rispose Vadim.

— Aspetti! Noi, per la verità, non abbiamo ancora fatto conoscenza…

La porta della cabina di comando era aperta, Anton aveva sentito che nel quadrato si borbottava qualcosa a proposito di Tachorg, di boscaglie e della teoria delle successioni storiche. Ora si mise ad ascoltare attentamente.

— Lei, mi pare, si chiama Vadim! — disse Saul.

— Di regola, — rispose serio Vadim. — Ma a volte mi chiamano Super Strutturalista, a volte Toro Volante, e in casi particolari Dimočka.

— Vadim, dunque… E quanti anni ha?

— Ventidue anni locali-terrestri.

— Locali… Ah sì, certo… Come ha detto? Locali-terrestri?

— Sì. Con i vecchi anni siderali non ho nulla a che fare.

— Certo. Proprio così pensavo. E suo padre, scusi, chi sarebbe?

— Chi sarebbe? Probabilmente quello che è ora, un agronomo.

— Eh… Capisco, capisco… Per la verità è proprio quello che intendevo,

Subentrò una pausa.

— Un bellissimo tavolo, — disse timidamente Saul.

Di nuovo una pausa.

— È un buon tavolo. Solido.

— E sua madre?

— Mia madre? Fa il guardiano. Lavora in una stazione mesonucleare.

Si sentiva Saul tamburellare nervosamente sul tavolo con i polpastrelli.

— Non faccia così, Vadim, — disse. — Non deve farci caso… Certo, io parlo in modo strano, e probabilmente anche un po’ ridicolo… Sa com’è… Il mio modo di vita… Il mio, per così dire, modus vivendi… Io ho una specializzazione ben definita. Sono tutto nel XX secolo. Come si diceva una volta, sono un topo di biblioteca. Eternamente nei musei, eternamente con vecchi libri…

— È l’influenza dell’ambiente.

— Sì, proprio così. Sto raramente in compagnia di altri, e ora è capitato. Conosce il professor Arnautov?

— No.

— Un grandissimo specialista. Il mio oppositore ideologico. Mi ha chiesto di controllare alcuni aspetti della sua nuova teoria. Naturalmente non potevo rifiutarmi, vero? Ecco perché mi ètoccato abbandonare… lari e penati. Ecco… Ma sto sempre a parlare di me!… Lei, mi pare, fa il linguista strutturale?

— Sì.

— Un lavoro interessante?

— Perché, ci sono forse lavori non interessanti?

— Già, certo… E di che cosa si occupa?

— Mi occupo di analisi delle strutture. Ma senta, Saul, io mi sono staccato da tutto quello che è terrestre. Le racconto piuttosto qualcosa sui Tachorg.

— No, grazie, sui Tachorg non c’è bisogno. Meglio qualcosa sul suo lavoro.

— Saul, le ho già detto che mi sono staccato.

— Ma che cosa vuol dire mi sono staccato? Adesso non pensa affatto al lavoro?

— Al contrario. Ci penso sempre. Penso sempre al lavoro che mi occupa al momento. Ora sono supermagazziniere e secondo pilota, nel caso che Anton all’improvviso rimanga disidratato. Ma mi pare che questo già… Allora, adesso ho proprio voglia di guidare un po’ la navicella.

— Farà ancora in tempo a guidarla! E poi la pregavo di raccontarmi non i particolari del suo lavoro, ma gli aspetti esteriori, per esempio… cosa fa quando arriva al lavoro. Una giornata di lavoro.

— Bene. Una giornata lavorativa. Mi sdraio sul calcolatore e penso.

— Sì… Un momento. Sul calcolatore? Ah sì, capisco. Fa il linguista e si sdraia sul… E poi?

— Penso per un’ora. Penso per una seconda. Penso per una terza…

— E alla fine?

— Penso per cinque ore, non ne viene fuori niente. Allora mi alzo dal calcolatore e me ne vado.

— Dove?

— Allo zoo, per esempio.

— Allo zoo? Perché allo zoo?

— Così. Mi piacciono gli animali.

— E il lavoro?

— Il lavoro… Torno il giorno dopo e di nuovo comincio a pensare.

— E di nuovo pensa per cinque ore e poi se ne va allo zoo?

— No. Di solito la notte mi vengono delle idee, e il giorno dopo ci penso solo un po’ su. E poi si brucia il calcolatore.

— Così. E va allo zoo?

— Che c’entra ora lo zoo? Ci mettiamo a riparare il calcolatore. Lo ripariamo fino al mattino.

— E poi?

— E poi finisce il giorno feriale e comincia il giorno festivo. Tutti hanno gli occhi fuori delle orbite e una sola cosa in testa: ecco ora si rompe di nuovo e si comincia daccapo.

— Beh, va bene. Questi sono i giorni feriali. Però non si può mica sempre lavorare…

— No, non si può, — disse Vadim con rammarico. — Io, per esempio, non posso. Alla fine ti senti esaurito, e ti tocca divertirti.

— Come?

— Come capita. Io, per esempio, vado in barca a vela sul ghiaccio. Le piace andare in barca a vela sul ghiaccio?

— Eh… Non mi è mai capitato.

— Com’è possibile, Saul! Le farò assolutamente fare un giro. Qual è il suo indice di salute?

— Indice di salute? Sono assolutamente sano. E su che cosa lavora ora?

— Sulle aggregazioni di strutture isolate.

— E a che cosa serve?

— Cosa vuol dire a che cosa serve?

— Beh, chi è che ne ricaverà profitto?

— Tutti quelli a cui interessa. Ecco, ora progettano un radiotrasmettitore universale. Un radiotrasmettitore universale deve saper aggregare le strutture isolate.

— Dica, Vadim, ma qui sulla navicella si può ascoltare musica?

— Certamente. Che cosa le piacerebbe? Vuole I trilli di Scheer? Con questa musica guidare la navicella è una bellezza.

— E Bach?

— Oh, Bach! Mi pare che abbiamo anche Bach. Sa, Saul, deve essere molto piacevole ascoltare musica insieme a lei.

— Perché?

— Non so. È sempre piacevole ascoltare la musica con qualcuno che se ne intende. Le piace Mendelssohn?

— Conosce Mendelssohn?

— Saul! Mendelssohn è il migliore dei vecchi! Spero che le piaccia Mendelssohn. Per la verità la navicella non è il posto migliore per ascoltarlo. Non le pare?

— Probabile… Io di solito ascolto Mendelssohn stando nel mio comodo studio…

Gli si è sciolta la lingua finalmente, pensò Anton. Guardò l’orologio. La navicella entrava nella zona di decollo sotto il Polo nord. Sullo schermo, nella profondità viola affioravano i puntini scuri delle astronavi, che aspettavano il via. Anton gridò verso la porta:

— Scusate se vi interrompo. Presto decolleremo. Dimka, mostra a Saul come si utilizza la camera di azzeramento della forza di inerzia.

Anton inoltrò alla stazione di controllo la richiesta del programma di volo e trenta minuti dopo, durante i quali la navicella nuotò nella stratosfera insieme a una ventina di altre astronavi grandi e piccole, ricevette il programma con sette varianti per il viaggio di ritorno e il permesso di partenza per lo spazio. Allora chiese ai passeggeri di chiudersi nelle cabine, andò in cabina anche lui, inserì il programma di passaggio e diede alla navicella il comando di via.

Come sempre, Anton ebbe un forte senso di nausea. Un’onda infuocata gli attraversò il corpo, la faccia e la schiena si ricoprirono di sudore freddo. Lo sguardo imbambolato, seguiva la lancetta rossa che con violenti strappi segnalava sul quadrante i cambiamenti di curvatura dello spazio. Duecento riman… quattrocento… ottocento… mille e seicento riman al secondo… Lo spazio si avvolgeva sempre più stretto intorno alla navicella. Il nitido cono nero della navicella diventava sempre più fluttuante, si dissolveva lentamente e all’improvviso scompariva del tutto, e al suo posto divampava sul sole un’enorme bolla di aria solida. La temperatura per un raggio di cento chilometri si abbassava bruscamente di cinque-dieci gradi… Tremila riman. La lancetta rossa si fermò. La deritrinitazione ipsion finì e la navicella passò sul subspazio. Dal punto di vista di un osservatore terrestre adesso era “distesa” lungo tutto quel tratto di centocinquanta parsec che separavano il Sole da EN 7031. Ora bisognava tornare nello spazio normale.

Quando si esce dal subspazio c’è sempre il pericolo di trovarsi troppo vicino a una massa gravitazionale e, forse, persino al suo interno. Per la verità, questo pericolo è puramente teorico. Le probabilità sono di gran lunga inferiori a quelle che ha un paraca. dutista di andare a finire proprio nella canna fumaria dell’Ermitage, buttandosi su Leningrado dalla stratosfera. In ogni caso, né l’una né l’altra eventualità si sono mai verificate. La nave spaziale di Anton si inserì felicemente nello spazio normale alla distanza di due unità astronomiche dalla nana gialla EN 7031.

Anton trasse un sospiro di sollievo, si asciugò il sudore dalla fronte e uscì dalla camera di azzeramento. Nella cabina di piotaggio tutto era in ordine. Passò davanti al quadro di comando, gettò uno sguardo allo schermo visore e girò l’interruttore dell’autopiota subspaziale. Sul quadro di comando davanti allo schermo giaceva ancora il mazzetto di garofani. Anton si fermò. «Peccato», borbottò. Toccò i fiori con un dito e i petali si dissolsero in una polvere verdastra. «Poveracci, — pensò Anton. — Non ce l’hanno fatta. Già, e chi ce la fa?» Si ricordò dei suoi passeggeri e scese nel quadrato.

Lì si aprivano le porte di tutte le otto cabine e il portello che dava nel piano inferiore, dove si trovavano le dispense, una cucinasintetizzatore, la doccia e tutto il resto. Anton gettò un’occhiata al tavolo, alle poltrone, rimise a posto il coperchio del condotto per le immondizie e si diresse alla cabina di Vadim. Fece scattare la serratura della camera di azzeramento e Vadim cascò fuori. Era bianco e bagnato come un topo.

— Ti senti male? — chiese Anton comprensivo.

Vadim intonò con voce da basso:

Fischia il vento subspaziale
Un sibilo risuona ribelle
Perché è uscito tra le stelle
Il linguista superstrutturale.

Poi, si slanciò verso un divano e si sedette.

— Ecco perché non sono diventato astronauta, — disse con voce un po’ rauca e rovesciò la testa all’indietro.

— Lo dici ogni volta, — disse Anton. Vadim tacque. — Vado a liberare Saul, — aggiunse Anton.

— Hai sentito la nostra conversazione? — chiese Vadim, senza aprire gli occhi.

— Sì.

— Persona interessante, no?

— Non so, — disse Anton. — Secondo me è una persona nei guai.

— Certo! Se no, non l’avresti preso sulla navicella. Appena ci prepariamo per un viaggio noi due, tu subito ti metti a fare l’altruista. Aspetta, non te ne andare…

Anton si fermò sulla porta.

— Dici delle stupidaggini ed intanto Saul là, probabilmente, si sta sentendo male. Penso che lui sia un trasvolatore interpianetario ancora peggiore di te.

Vadim emise inaspettatamente un tragico sussurro:

— Cieco! Oh, cieco!… No, non te ne andare, anche io mi sento male… Davvero non hai ancora capito che tipo è?

— Che cosa intendi dire?

Vadim finalmente si mise seduto.

— Non capisce niente di linguistica, — disse. — Non te ne sei accorto?

— E tu di storia cosa ne capisci?

— E dice pure di essere un topo di biblioteca. Lo conosciamo tutti un topo di questo tipo. Si chiama Benny Durov. Parla un po’ di lui con i Tagoriani.

Anton sorrise involontariamente.

— Va bene, — disse. — Solo, tu cerca un po’ di controllarti. Io ti sopporto anche a grandi dosi, ma sugli estranei fai, a volte, un’impressione pessima. Un po’ meno ottimismo da puledro e un po’ più di tatto.

— Agli ordini, capitano, — disse serio Vadim. — Sarà fatto, capitano.

Anton uscì. Mentre girava intorno al tavolo, sorrise di nuovo; con Vadim non ti annoi mai. Nella cabina numero tre preparò prima di tutto il divano e solo dopo fece scattare la serratura, pronto ad afferrare il corpo che cadeva. Invece, dalla camera di azzeramento uscì del fumo azzurro. Anton indietreggiò.

— Che c’è, è già ora? — risuonò la voce di Saul da dietro le volute di fumo.
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