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Vadim fece atterrare il bioplano nella prima strada che capitò. Abbassò la cappotta, e nella cabina penetrò un odore ripugnante di escrementi, l’odore triste di una grande miseria. Su entrambi i lati della strada stavano delle baracche semidiroccate, del tutto prive di finestre. La luce lunare inargentava i mucchi di neve immacolata sui tetti piatti e faceva nereggiare in modo disgustoso i mucchietti di feci accanto alle porte. La strada era deserta, e si sarebbe potuto pensare che il villaggio fosse abbandonato, ma il silenzio era pieno di rantoli, sospiri e del crepitio soffocato della tosse secca.

Vadim guidò lentamente il bioplano lungo la strada. Il vento freddo gli bruciava il viso. Né sulla strada né nei vicoli scuri si vedeva un’anima.

— Si sono stancati, — disse Vadim. — Staranno dormendo. Bisognerà svegliare qualcuno. — Fermò di nuovo il bioplano. — Aspettatemi qui, vado a dare un’occhiata.

— Va bene, vengo anch’io, — disse Anton.

— Basta uno, — obiettò Vadim, balzando a terra. — Do un’occhiata e torno subito. Se qui non combino niente, proseguiremo.

Anton disse:

— Saul, aspetti qui. Torniamo subito.

— Non fate rumore, — li avvertì Saul.

Vadim si fermò incerto davanti ad un sentierino sporco che portava all’ingresso della baracca più vicina. Gli ripugnava percorrere quei pochi metri. Si guardò intorno. Anton gli stava già accanto.

— Beh, che cosa hai? — disse. — Va’ avanti.

Vadim si avviò deciso per il sentiero, scivolò e per poco non cadde. Gli veniva da vomitare, e camminava a testa alta per non vedere dove metteva i piedi. La porta si aperse scricchiolando, e ne cadde fuori un uomo, completamente nudo, lungo come una pertica. Ruzzolò sulla neve ghiacciata e sbatté contro la parete della capanna.

Vadim si chinò su di lui. Notò che era già irrigidito. Doveva essere morto da parecchio tempo. Quanti ne ho visti oggi, pensò Vadim. Nella capanna qualcuno tossiva, e all’improvviso un’alta voce stridente intonò una canzone. Pareva il grido di un animale. La voce cantava solo dei vocalizzi tetri, senza parole. Forse, in realtà, era un pianto.

Vadim si guardò di nuovo alle spalle. Sulla strada, accanto alla sagoma del bioplano si distingueva la silhouette immobile di Saul. Sotto la luna, la strada deserta, coperta di neve, appariva sinistra. Intanto, nella baracca, la voce stridula continuava a gemere e a lamentarsi. Anton diede a Vadim una leggera gomitata.

— Hai paura? — chiese sottovoce. Aveva la faccia bianca come quella di un assiderato.

Vadim non rispose. Spalancò la porta e accese una torcia. Una zaffata di fetore gli mozzò il fiato. Il cerchio di luce della torcia cadde su un umido pavimento di terra, coperto di pallida erba calpestata. Vadim vide decine di corpi piegati, stretti l’uno all’altro, un groviglio di smagrite gambe nude con degli enormi piedi, decine di volti scarniti, alterati dalle lunghe ombre, e decine di nere bocche spalancate. Dormivano sul nudo pavimento, l’uno sull’altro. Parevano accatastati in tanti strati, e tremavano nel sonno. Ma il lamento continuava senza interruzione. Vadim non notò subito il cantore, ma poi lo avvolse nel cerchio di luce. Accovacciato sulla schiena di alcuni dormienti, si era circondato con le braccia le ginocchia aguzze. Guardava la luce della torcia con occhi imbambolati e cantava muovendo le labbra screpolate.

— Ehi tu, — disse Vadim. — Ascoltami. Canterai dopo, ora dimmi qualcosa.

L’uomo non si mosse. Sembrava che non vedesse la luce e non sentisse le parole.

— Ehi, — ripeté Vadim. — Ascolta.

Il cantore emise all’improvviso un ultimo grido roco, cadde riverso e spirò. Subito si confuse con i dormienti, e Vadim non riuscì più a trovarlo. Inghiotti faticosamente, fece un passo avanti e diede una manata a una gamba nuda. Era una gamba gelata, morta. Vadim toccò un’altra gamba. Anche questa era gelata, morta. Allora si voltò barcollando e cadde addosso a qualcosa di tiepido e largo.

— Sta’ calmo, — disse la voce di Anton.

Vadim scosse il capo, tornando in sé. Si era completamente dimenticato di Anton.

— Non posso, — borbottò. — Qui non c’è speranza.

Anton lo prese per un gomito e lo condusse fuori. Il vento freddo parve a Vadim puro e inebriante.

— Non posso, — ripeté. — Qui sono tutti morti, stecchiti. — Si staccò da Anton e si avviò cauto per il sentiero. Saul stava come prima, immobile accanto al bioplano. Vadim si accorse che la torcia era ancora accesa. La spense, se la mise in tasca e salì sul bioplano. Saul lo guardava in silenzio. Anton si avvicinò, appoggiò i gomiti sul bordo dell’oblò ed anche lui si mise a fissare Vadim. Vadim appoggiò la fronte al volante e disse tra i denti:

— Non sono uomini. Non possono essere uomini. — Sollevò all’improvviso la testa. — Sono androidi! Uomini sono solo quelli che portano la pelliccia! Gli altri non sono che robot, terribilmente simili a uomini!

Saul sospirò profondamente.

— Non credo, Vadim, — disse. — Semmai sono uomini, terribilmente simili a dei robot.

Anton scavalcò l’orlo dell’oblò e sedette al suo posto.

— Coraggio, — disse. — Cerchiamo di non perdere tempo. Abbiamo bisogno di un prigioniero. — Diede una manata sulle spalle di Vadim. — Vada, tenente, e non torni senza un prigioniero.

Saul emise uno strano rumore, che poteva essere un singhiozzo od un sogghigno.

— Vuole che vada là dentro a scegliere qualcuno? — propose.

— Penso però che non è di loro che abbiamo bisogno.

— Allora di giorno lavorano e di notte muoiono, — ripeté ostinato Vadim. — Che invenzione mostruosa!

— Giusto, — disse Saul. — Un’invenzione mostruosa, e bisogna acciuffare uno degli inventori. In pelliccia.

Vadim guardò lungo la strada.

— L’ottimismo — disse — è una gioiosa sensazione di fiducia nell’avvenire, con cui l’uomo….

Nella luce lunare vide a un tratto una fila di ombre grigie, vestite di sacchi, che attraversava la strada.

— Guardate, — disse.

Gli uomini continuavano a passare, erano una ventina, e dietro di loro venivano due impellicciati con delle lunghe aste.

— Chi cerca, trova, — disse Saul con voce sinistra. — Basta raggiungere uno di quei due e prenderlo…

— Uno di quelli? — chiese Anton dubbioso.

— E lei vuole continuare a frugare le baracche? Le posso assicurare che gli impellicciati non vivono certo nelle baracche. Muoviamoci, se no li perdiamo…

Vadim sospirò e fece decollare il bioplano. Seguì lentamente la strada. E cercava di immaginare come avrebbero catturato un uomo spaventato e stupefatto, come lo avrebbero trascinato al bioplano e infilato nella cabina, mentre lui gridava e si agitava. Se qualcuno avesse tentato di fare altrettanto con lui, gliel’avrebbe fatto vedere… Tese l’orecchio. Saul stava parlando:

— Non preoccupatevi, lo prenderò io. So come fare. Non avrà il tempo neppure di fare un gesto.

— Lei mi ha capito male, — disse Anton paziente. — Gli atti di violenza sono da escludere nel modo più assoluto.

— Ascolti. Lasci fare a me. Lei combinerebbe solo guai. L’infilzerebbero con una picca e dovremmo dar battaglia…

E questo è il topo di biblioteca! pensò Vadim meravigliato.

Anton disse:

— Senta, Saul, il suo modo di fare non mi piace. Rimanga a bordo e non si azzardi a prendere nessuna iniziativa.

— Oh Signore! — sospirò Saul e tacque.

Vadim voltò in una strada laterale, ed essi videro in lontananza una graziosa casetta a due piani, intorno alla quale si affollavano parecchie persone, illuminate dal fuoco rosso delle torce. C’era un gruppetto di uomini vestiti di sacchi, e intorno a loro andavano e venivano gli uomini in pelliccia. Vadim avanzava molto lentamente, tenendo il bioplano nella parte buia della strada. Non aveva idea sul da farsi. Anton pure. In ogni caso, taceva.

— Ecco, qui vivono gli inventori, — disse Saul. — Vedete che casa calda e comoda! E lì vicino c’è anche il gabinetto. La cosa migliore è di acchiapparne uno quando va al gabinetto. A proposito, avete notato che non c’è nemmeno una donna?

La porta della casetta si spalancò. Ne uscirono due persone e si fermarono sulla veranda. Risuonò un lungo grido lamentoso. Il gruppetto degli uomini vestiti di sacchi si mosse, formò una fila e si diresse verso il bioplano. Accanto alla veranda si levarono contemporaneamente varie grida. Vadim si affrettò a frenare e a far atterrare il bioplano.

Guardava con gli occhi sbarrati e non capiva niente. Alle sue spalle Anton ansimava. Gli uomini nei sacchi arrivarono all’altezza del bioplano e proseguirono oltre a passo svelto. Vadim emise un grido di stupore. Una ventina di uomini scalzi fu aggiogata ad una grossa slitta, su cui si sdraiò un uomo in pelliccia, coperto di pelli fino alla vita e con un berretto, sempre di pelliccia, a forma di cono. In mano teneva una lunga picca dalla minacciosa cuspide dentellata. I volti degli uomini aggiogati alla slitta esprimevano gioia, ed essi gridavano con entusiasmo. Vadim si voltò a guardare Saul. Saul fissava a bocca spalancata lo strano convoglio.

— Ne ho abbastanza di indovinelli, — disse all’improvviso Anton. — Va’ dritto fino alla casa.

Vadim tirò con forza il freno e la casetta si precipitò incontro al bioplano. Gli impellicciati che stavano sulla veranda rimasero a guardare per qualche secondo la macchina che si avvicinava; poi, con velocità incredibile, si schierarono a semicerchio, puntando le picche. Sulla veranda, un grasso gigante villoso si mise a saltellare, emettendo i soliti urli lamentosi. Agitava in aria una larga lama lucente. Vadim fece atterrare il bioplano di fronte alle picche e uscì dalla cabina. Gli impellicciati arretrarono, stringendo il semicerchio. Le cuspidi delle picche erano rivolte contro il petto di Vadim.

— Pace! — disse Vadim e sollevò le braccia.

Gli impellicciati arretrarono ancora un poco. Dalle bocche uscivano nuvolette di vapore e puzzavano di caprone. Sotto i cappucci luccicavano occhi spaventati e denti scoperti. Il grassone sulla veranda fece un lungo discorso. Era incredibilmente alto e grasso. Anche la sua faccia, tremolante di grasso e lucida di sudore, aveva proporzioni straordinarie. Parlando si chinava, balzava in piedi, agitava la spada ora sotto i suoi piedi ora verso il cielo, e parlava con una voce lamentosa, effeminata e innaturalmente alta. Vadim ascoltava a capo chino. I cristalli mnemonici che portava sulle tempie registravano le parole e le intonazioni sconosciute e davano le prime, approssimative traduzioni. Parlava di minacce, di qualcosa di grande e possente, di terribili punizioni… Il grassone all’improvviso tacque, si asciugò con la manica la faccia sudata, e, ormai sfiatato, emise un gemito breve e secco. Nella sua voce si sentiva la sofferenza. Gli uomini con le picche all’istante si chinarono e cominciarono ad avanzare lentamente verso Vadim.

— Beh, è tutto chiaro, — disse Saul. — Cominciamo?

Appoggiò la canna dello skorcer sull’orlo dell’oblò.

— Fermo, Saul, — disse Anton. — Vadim, rientra in cabina!

— Ma di cosa si preoccupa? — disse Saul con ira. — Non vede che sono bestiacce immonde, delle SS! Dei rospi!

Gli impellicciati continuavano ad avanzare a piccoli passi. Quando le cuspidi luccicanti sfiorarono il petto di Vadim, questi fece un passo indietro, si voltò e risalì a bordo del bioplano.

— Una tipica lingua agglutinante, — dichiarò, sedendosi. — Hanno un vocabolario molto limitato. Comunque è chiaro che non vogliono la pace.

— Potremmo almeno spaventarli, — propose Saul. — Spariamo in aria e li vedremo calar le brache!

Anton chiuse il portello. Gli impellicciati tornarono verso la veranda e sollevarono le picche. Guardavano tutti il bioplano. Sulla faccia larga del grassone vagava un sogghigno di disprezzo.

— Ma insomma, — proruppe Saul. — Avete bisogno di un prigioniero, sì o no? Allora prendiamo il grassone! Sembra proprio un Raportführer!

— Ma cerchi di capire, — ribatté Anton esasperato, — se non vogliono avere a che fare con noi, è nei loro diritti! Che cosa possiamo farci?

— Avete o no bisogno di un prigioniero? — ripeté Saul. — Il vantaggio della sorpresa ormai l’abbiamo perso. Qui dovremo dare battaglia. Ma c’è ancora quel rospo schifoso che è partito in slitta.

Ma guarda che lessico! pensava ammirato Vadim. Proprio come uno del XX secolo. Che specialista in gamba! Guardò Anton. Anton era pallido e indeciso. Vadim non lo aveva mai visto in quello stato.

— Delle due l’una, — continuava Saul. — O vogliamo scoprire quello che sta succedendo qui oppure ce ne torniamo sulla Terra, per far posto ad esploratori un po’ più in gamba. E bisogna che ci spicciamo a decidere, fin tanto che ci puntano addosso solo picche…

Perdiamo tempo, pensò Vadim. Finora abbiamo solo perso tempo. E nelle baracche continuano a morire.

— Toška, — disse. — Raggiungiamo la slitta. Là c’è solo uno con la picca, sarà più facile. Gli togliamo la picca e lo facciamo salire a bordo della navicella.

— Stanno sghignazzando, quei rospi, — sbottò Saul, guardando da un finestrino.

Mostrò significativamente il pugno al grassone sulla veranda. Quello fece spallucce e agitò altrettanto significativamente la spada.

— Avete visto? — disse Saul con cupa allegria. — Ci capiamo, vero?

— Farò un altro tentativo, — disse Anton e spalancò il portello. Il grassone gridò. Uno dei suoi uomini, piegatosi all’indietro, scagliò con forza la picca. La cuspide di ferro slittò rumorosamente sul vetro. Saul addirittura si accoccolò.

— Te la sei voluta… — urlò di scatto.

Anton fece appena in tempo ad afferrargli il braccio, e i suoi occhi erano come due fessure nere.

— Ho capito, — disse con voce strozzata e sospirò. — Vadim, torna indietro!

Vadim voltò il bioplano.

— Trova la slitta! — ordinò Anton e si appoggiò allo schienale della poltrona. — Qui non scopriremo niente, — aggiunse. — Siamo davanti ad un muro di ottusità impenetrabile.

— Spari un colpo in aria, — disse Saul con noncuranza, — e potrà prenderli a mani nude.

Anton tacque. Il bioplano sorvolò la strada deserta ed in capo a qualche minuto volava sui campi.

— Le dico solo una cosa, — sbottò Anton. — Alla fine avremo di che vergognarci.

— Ma che cosa possiamo fare? — chiese Vadim. — Ci sono uomini che stanno morendo!

— Se almeno sapessi che cosa fare, — disse Anton. — La Commissione non ha previsto circostanze del genere.

Che Commissione? voleva chiedere Vadim, ma Saul parlò prima di lui:

— Ma la smetta di perder tempo. Se vuol fare del bene, lo faccia attivamente. Il bene deve essere più attivo del male, se non vuole arenarsi.

— Il bene, il bene, — brontolò Anton. — Chi ha voglia di essere uno sciocco zelante?

— Ha ragione, — disse Saul. — Ma almeno avrà la coscienza tranquilla.

Raggiunsero la slitta a cinque chilometri dal villaggio. Gli uomini correvano sulla neve intatta, inciampando e cadendo, e l’uomo in pelliccia, sdraiato sulla slitta, di tanto in tanto punzecchiava pigramente con la picca quelli più lenti.

— Scendo, — disse Vadim.

— Atterra davanti alla slitta, — ordinò Anton, — e parlaci. Saul, mi dia lo skorcer , e rimanga seduto. Quello non è un rospo schifoso ma un uomo.

— Va bene, — disse Saul. — Eccole lo skorcer . Ma se infilza Vadim con la picca? Invece di stare a chiacchierare…

Vadim disse:

— Gli toglierò la lancia. Poi taglieremo le corregge, e daremo cibo e vestiti a quei poveracci.

— Giusto, — disse Anton.

Il bioplano piombò a terra davanti al convoglio, e gli uomini-cavallo si arrestarono come pietrificati. Vadim saltò giù. Gli uomini vestiti di sacchi rimasero immobili, coprendosi il volto con le mani. Ansimavano pesantemente, con un sibilo. Mentre correva verso la slitta, Vadim gridò loro allegramente:
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