IV

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L’uomo in pelliccia scosse la testa e cominciò a parlare in fretta, e subito Vadim gli rispose con un’intonazione molto simile. Quello tacque, guardò sorpreso Vadim, poi di nuovo Anton e si ritirò. Anton, con un gesto rabbioso, si aggiustò il pesante skorcer nella cintura, e si voltò verso un ferito che stava in piedi e si copriva il volto con le mani. E tutti quelli che stavano alla destra di Anton si coprivano il volto con le mani, eccetto quello, ormai morto, dalla faccia grigia, che continuava a tenersi il ventre.

— Non è niente, non è niente, — diceva Anton con tono gentile. — Abbassate le mani, non abbiate paura. Andrà tutto bene…

Ma in quello stesso istante si udì un’alta voce lamentosa, e tutti gli uomini vestiti di sacchi si voltarono subito verso destra. Quelli in pelliccia corsero a disporsi lungo vari punti della fila. Di nuovo si sentì la voce lamentosa e la colonna si mosse.

— Fermi! — gridava Anton. — Non fate sciocchezze!

Nessuno si voltò. La colonna si mosse, e tutti, mano a mano che arrivavano all’altezza di Anton, si coprivano la faccia con le mani. Solo l’uomo con il ventre a brandelli rimaneva fermo, finché qualcuno non lo sfiorò, e lui scivolò dolcemente sulla neve. La colonna si allontanò.

Anton interdetto si passò una mano umida sugli occhi e si guardò intorno. Vide l’enorme carro armato rovesciato, Saul fermo lì accanto, Vadim che guardava infuriato la colonna che si allontanava, e più di una decina di corpi sulla neve calpestata. E si fece del tutto silenzio, si sentivano solo dei rari lamenti in lontananza.

— Perché? — chiese Vadim. — Che cosa li ha spaventati?

— Noi, — disse Anton. — O meglio, le nostre medicine…

— Allora li inseguo e cerco di spiegare…

— Te lo proibisco nel modo più assoluto. Bisogna agire con molta delicatezza. Lei che cosa ne pensa, Saul?

Saul si mise sottovento e si accese la pipa.

— Cosa ne penso… — disse. — Che questo posto non mi piace per niente…

— Sì, — approvò Vadim. — C’è qualcosa di orribile, una tremenda sventura…

— Perché proprio una sventura? — disse Saul. — Chi sono, secondo voi, quei mascalzoni in pelliccia?

— Perché devono essere dei mascalzoni?

— Mi dica lei cos’altro potrebbero essere.

Vadim tacque.

— Ragazzoni sani e ben nutriti, in pelliccia, — disse Saul con una strana espressione, — ordinano alla gente di buttarsi sotto il carro armato. Non lavorano, guardano soltanto. Due di loro stanno in bella mostra sul terrapieno con una picca in mano. Secondo voi che cos’altro potrebbero essere?

Vadim tacque.

— Pensateci su, — disse Saul. — Ne vale la pena…

Anton disse, guardando in cielo:

— Si sta facendo buio. Andiamo a vedere la macchina, dato che siamo qui. Tanto prima o poi dovremo farlo…

— Andiamo, — disse Saul.

Anton chiuse con cura lo zaino dei medicinali, e si avviarono verso il carro armato. Vadim non si mosse. Guardava cupo il pendio, su cui strisciava lentamente una fila di puntini neri, la coda della colonna che stava finendo di oltrepassare il terrapieno.

Il portello ovale del carro armato era aperto. L’interno della macchina era diviso da una paretina membranosa. Anton accese una torcia e tutti e tre si misero a osservare le pareti ondulate della cabina, i giunti opachi del motore, certi specchi curvi piazzati su aste segmentate, che parevano canne di bambù, ed il pavimento curvo, tutto bucherellato, simile a una gigantesca schiumaiola.

— Ma che macchina curiosa, disse Saul, — dove saranno i comandi?

— Probabilmente ha un pilota cibernetico, — disse Anton distratto. — Ma no, è improbabile… c’è troppo spazio vuoto…

Si infilò nel vano motore. Si trattava di un meccanismo bionico piuttosto primitivo, con un alimentatore ad alta frequenza.

— Una macchina potente, — osservò Saul in tono pieno di rispetto. — Soltanto, come si fa a guidarla?

Ritornarono nella cabina.

— Ci sono dei buchetti, — borbottò Saul. — Dove sarà il volante?

Anton provò a infilare l’indice in uno dei buchi. Il dito non riusciva ad entrare. Anton provò allora con il mignolo. Sentì una breve puntura dolorosa, e in quello stesso istante nel motore qualcosa si mosse ruggendo.

— Ora è tutto chiaro, — disse Anton, osservandosi il mignolo.

— Che cosa è chiaro?

— Non possiamo guidare questa macchina… E anche loro non possono.

— E chi è che può farlo?

— Non posso esserne sicuro, ma credo che appartenga ai Nomadi dello Spazio. Non vede?… Questa macchina non è fatta per umanoidi.

— Davvero? — borbottò Saul.

Rimasero per un po’ fermi in silenzio davanti alla cabina, cercando di immaginarsi un essere che là dentro si sentisse a suo agio, così come loro si sentivano in poltrona, davanti ai quadranti e alle leve dei comandi.

— Chissà perché mi ero proprio figurato qualcosa del genere, — annunciò Saul. — Sarebbe stato veramente paradossale: sacchi di juta e trasferimento adimensionale…

— Vadim, — chiamò Anton.

— Che c’è? — rispose cupo Vadim, che stava ritto sul carro armato.

— Hai sentito?

— Ho sentito. Tanto peggio per loro… — Vadim fece un balzo, atterrando pesantemente nella neve. — È ora di tornare indietro, — disse. — Si sta facendo buio…

Si buttarono gli zaini in spalla e cominciarono a risalire il pendio.

Che pasticcio, pensava Anton. Macchine inutilizzabii dagli umanoidi. Umanoidi che non hanno più nulla di umano, che si sforzano di capire come si manovrino queste macchine. Perché èchiaro che cercano di manovrarle. Probabilmente, è la loro unica speranza… Ed è anche chiaro che non ne caveranno niente… E poi quei tipi strani in pelliccia…

— Saul, — disse. — Cosa sono le picche?

— Sono lance, — grugnì Saul.

— Lance…

— Lunghi bastoni con una punta di ferro, — rispose Saul con rabbia. — Hanno in cima una punta aguzza di ferro, spesso con una tacca. Servono a infilzare il prossimo. — Saul tacque, sospirando profondamente. — Se volete, posso anche spiegarvi che cosa sono le spade.

— Grazie, lo sappiamo già, — disse, senza voltarsi, Vadim che marciava in testa.

— Ognuno di quei banditi in pelliccia portava una spada in una custodia sulla schiena, — disse Saul. — Ascoltate ragazzi, fermiamoci un momento…

Si sedettero sugli zaini.

— Lei fuma troppo, — disse Anton. — Le farà male.

— Non c’è dubbio, — rispose Saul. — Mi rovinerò la salute.

Si fece buio del tutto. Il fondo della conca si riempì delle ombre del crepuscolo. In cielo sparirono le nuvole, apparvero le stelle. Sulla sinistra sfumava lo splendore verdastro del tramonto. Ad Anton si gelarono le orecchie e, con un brivido, pensò a quegli infelici che vagavano scalzi sulla neve scricchiolante. Ma dove erano diretti? Forse, da qualche parte nei dintorni, c’era un rifugio?… Eppure, soltanto ventiquattro ore prima lui e Dimka se ne stavano sulla veranda del cottage, faceva caldo, dal giardino veniva un profumo meraviglioso, le cicale frinivano, e lo zio Saša era venuto ad invitarli a provare una bibita preparata da lui… Perché Saul ce l’aveva tanto con gli uomini in pelliccia?

Saul si alzò con un sospiro e disse:

— Andiamo.

Salirono a bordo del bioplano, chiusero la cappotta, e Vadim subito girò l’interruttore dell’impianto di riscaldamento. Anton si sbottonò la giubba, tirò fuori lo skorcer caldo e lo buttò sul sedile accanto a Saul. Saul cercava rabbiosamente di scaldarsi le dita col fjato. Sulle sue sopracciglia folte si stava sciogliendo la brina.

— Ebbene, Vadim, — disse, — è arrivato a una conclusione?

Vadim sedette al sedile di guida.

— C’è tempo, — rispose. — Ora bisogna agire. C’è gente che ha bisogno di aiuto e…

— Perché ha deciso che ci sia gente che abbia bisogno di aiuto?

— Sta scherzando? — chiese Vadim.

— Non ho nessuna voglia di scherzare, — disse Saul. — Vorrei sapere perché lei non vuole cercare di capire quello che sta succedendo qui. Perché lei ripete sempre la stessa cosa: «Hanno bisogno di aiuto, hanno bisogno di aiuto»?

— Perché, secondo lei non ne hanno bisogno?

Saul balzò in piedi, ma batté la testa contro la cappotta e si rimise a sedere. Tacque per qualche secondo.

— Richiamo di nuovo la sua attenzione — disse alla fine — sul fatto importantissimo che laggiù, nella conca, non tutti avevano ugualmente bisogno di cibo e vestiti. Perché lì, nella conca, abbiamo visto anche uomini sani, ben nutriti e armati. A quanto pare, quelli si preoccupano della situazione molto meno di lei. Lei vuole aiutare i sofferenti. Benissimo. Ama, per così dire, anche chi ti è lontano. Ma non le sembra di entrare così in conflitto con gli ordinamenti locali? — Tacque, guardando fisso Anton.

— Non mi pare, — disse Vadim. — Non voglio considerare gli altri peggiori di me. È vero, là nella conca ci sono delle disuguaglianze. E quelle pellicce facevano rabbia. Ma sono sicuro che tutto questo ha una spiegazione umana. E, in ogni caso, il nostro aiuto non farà male a nessuno. — Riprese fiato. — E per quanto riguarda le picche e le spade, possono servire a scopo di protezione. O lei ha già dimenticato quei simpatici uccellini che abbiamo visto nella pianura?

Anton assentì pensieroso. Pensava a come era andata sull’astronave Flora. Per due settimane avevano rinunciato a metà della razione di ossigeno e non avevano mangiato né bevuto niente. Gli ingegneri stavano riparando gli impianti di sintesi, e loro gli avevano dato tutto quello che avevano. Ma il loro aspetto, alla fine della seconda settimana, era, probabilmente, non molto migliore di quello di questa gente…

Saul chinò il capo e con tristezza incrociò le dita fino a farle scrocchiare.

— Si finisce sempre per giudicare gli altri in base a noi stessi, — borbottò. — Come migliaia di anni fa.

Anton e Vadim aspettavano in silenzio.

— Siete dei bravi ragazzi, — disse piano Saul. — Ma ora non so, quando vi guardo, se esserne contento o mettermi a piangere. Non vi accorgete di quello che per me è del tutto evidente. Non ve ne posso fare una colpa. Ma permettetemi di raccontarvi una breve parabola. Tanto, tanto tempo fa degli extraterrestri — forse proprio i vostri Nomadi dello Spazio — dimenticarono sulla Terra un dispositivo automatico. Si componeva di due parti: un robot ed un apparecchio di telecomando. Il robot poteva essere anche diretto col pensiero. Queste cose rimasero sepolte in Arabia per qualche millennio. Ma poi l’apparecchio di telecomando fu trovato da un ragazzino arabo che si chiamava Aladino.[22] La storia di Aladino penso che la conosciate. Il ragazzino prese il dispositivo per una lampada. Mentre lo puliva, arrivò rombando, non si sa bene da dove, un grande robot nero, che magari sputava pure fuoco. Captò i pensieri semplici, in cui si esprimevano i semplici desideri di Aladino, e distrusse città e costruì palazzi. Potete immaginare cosa ne dedusse un ragazzino arabo, misero, sudicio ed ignorante. Il suo mondo era un mondo di maghi e stregoni, e il robot per lui era ovviamente un ginn , lo schiavo dell’apparecchio che sembrava una lampada. Se qualcuno avesse cercato di spiegargli che questo ginn era un oggetto, il ragazzino si sarebbe battuto fino all’ultimo respiro per difendere il suo mondo, per rimanere nell’ambito delle sue concezioni. E voi state facendo lo stesso. Difendete il vostro modo di vedere, sostenete la dignità dell’intelletto umano. E non volete capire che qui non si tratta di catastrofi naturali e tecniche, ma di un ben preciso stato di cose. Di un sistema, cari ragazzi. E non c’è da stupirsene. Solo due secoli e mezzo fa metà dell’umanità era convinta che la natura umana fosse fondamentalmente belluina, e motivi per pensarlo ce n’erano a sufficienza. — Fece stridere i denti. — Non voglio che vi immischiate in questa faccenda. Vi ammazzeranno. Dovete tornare sulla Terra e dimenticare tutto. — Guardò Anton. — Io invece rimarrò qui.

— Perché? — chiese Anton.

— Per me è necessario, — disse Saul lentamente. — Ho fatto una stupidaggine, e ora devo scontarla.

Anton pensò febbrilmente che cosa si potesse rispondere ad un tipo strano come quello.

— Lei, naturalmente, può rimanere, — disse alla fine. — Ma il problema non è questo. Non è solo questo. Anche noi rimaniamo. E per ora cerchiamo di rimanere insieme.

— Vi ammazzeranno, — ripeté Saul sconsolato. — Voi non sapete nemmeno sparare ad un uomo.

Vadim si diede un colpo sul ginocchio e disse con slancio:

— Noi la capiamo, Saul! Ma in lei è lo storico che parla, e anche lei non riesce ad uscire dall’ambito delle sue convinzioni. Nessuno ci ammazzerà. Non complichiamo le cose. Non abbiamo bisogno di ingegnose complicazioni. Siamo uomini, cerchiamo di comportarci da uomini!

— D’accordo, — disse stancamente Saul. — Ed ora mangiamo. Chissà che cosa succederà.

Anton non aveva voglia di mangiare, ma aveva ancora meno voglia di mettersi a discutere. E Saul probabilmente aveva ragione, e anche Vadim aveva ragione, e come sempre aveva ragione la Commissione per le Relazioni Interpianetarie. Comunque ora la cosa più necessaria erano le informazioni.

Vadim rimestava malvolentieri col cucchiaio in una scatola di conserve. Saul mangiava con grande appetito e parlava a bocca piena:

— Mangiate, mangiate. Alla base di ogni impresa c’è uno stomaco sazio.

Anton escogitava un piano di azione. Calamità naturale o sociale, sempre di calamità si trattava. E non si poteva non intervenire. Sarebbe stato sbagliato precipitarsi subito a casa implorando aiuto, ma sarebbe stato altrettanto sbagliato gettarsi a capofitto nell’azione, agitando un unico zaino di viveri… Gli dispiaceva per Saul, ma per ora Saul doveva essere messo da parte. Per prima cosa occorrevano le informazioni… Anton disse:

— Ora voleremo sulle tracce della colonna. Penso che ci debba essere un villaggio nelle vicinanze.

Saul approvò con la testa.

— Troveremo qualcuno che ragioni, — continuò Anton, — e tu Dimka ti farai raccontare tutto. E poi si vedrà.

— È giusto, — dichiarò Saul, leccando il cucchiaio, — ci occorre un prigioniero.

Per qualche secondo Anton restò interdetto: che cosa poteva essere un prigioniero? Poi si ricordò la frase di un vecchio romanzo:

«Vada, tenente, e non torni senza un prigioniero». Scosse la testa.

— Ma no, Saul, cosa c’entra un prigioniero? Dobbiamo comportarci in modo pacifico. Per ogni evenienza è meglio che lei rimanga indietro. Resti a bordo del bioplano. Lei non si è mai trovato in situazioni pericolose e ho paura che perda la testa.

Per qualche secondo Saul lo fissò con occhi vitrei.
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