VII

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VII

Il portatore di lancia del clan dei colli fu messo a sedere fra Saul e Anton. Era di nuovo avvolto nella sua pelliccia, che ora odorava di disinfettante, e sedeva immobile, limitandosi a storcere inquietamente il naso: si stava annusando. Erano le cinque del mattino, stava spuntando una smorta alba gelata. Faceva molto freddo.

Vadim guidava in silenzio il bioplano, mantenendosi sulla massima velocità. Pensava solo a una cosa: «Faremo in tempo o no?». Almeno quei poveracci avessero rinviato di un poco il loro rientro al villaggio! Ma si rendeva conto che non avevano dove andare. La loro unica possibilità di salvezza era cercare di commuovere il capo dei guardiani con la descrizione della loro eroica difesa del suo messaggero. Ma quel bestione, pensò amaramente Vadim, non si sarebbe commosso. Se il bioplano non fosse arrivato in tempo, li avrebbe ammazzati tutti. Immaginò se stesso nell’atto di consegnare Haira al grasso portatore di ottima spada, per poi dirgli: Kairame sorinata-mu karo-sika! , ecco il tuo uomo! — ed ordinare con voce stridula: Tatimata-ne korisa! , non osare di uccidere questi liberi! Non faceva che ripetersi in mente queste frasi, tanto che alla fine avevano perso per lui ogni significato. Oltre tutto non sarebbe stato così facile. Forse avrebbe dovuto avere una lunga conversazione. Ma difficilmente il portatore di spada sarebbe stato d’accordo a farsi applicare alla lurida testa di comandante i cristalli mnemonici. Vadim lanciò un’occhiata di sbieco alla scatola lucida dell’analizzatore. L’avrebbe fatto lavorare. Non per nulla si era sobbarcato il trasporto di quel peso di un quarto di quintale dall’astronave al bioplano.

Anton chiese:

— E cosa diceva il messaggio?

Vadim estrasse di tasca un foglietto spiegazzato e glielo tese, senza voltarsi.

— Leggi ciò che ho scritto fra le righe con la matita. È la traduzione fatta dall’analizzatore e riveduta da me.

Anton prese il foglietto e cominciò a leggere sottovoce:

«Alla Ruota Radiosa dalla pelliccia d’oro, al portatore di terribile dardo, al primo servo ai piedi del trono della Grande Rupe Potente, della Battaglia Scintillante, di colui che posa un piede nel cielo e che vivrà quanto le macchine, ai tuoi piedi getta questo rapporto l’umilissimo guardiano del clan dei turbini, portatore di ottima spada.

1) la grande macchina “soldato-cupola” è entrata in movimento quando sono stati toccati il quinto ed il quarantasettesimo foro. Il movimento è stato rapido, rettilineo ed incontenibile.

2) su una macchina mai vista sono giunti tre uomini, che non sanno parlare, non portano armi, ignorano i regolamenti e desiderano strane cose. Non conoscendo la loro natura, resto in attesa di direttive.

3) Il carbone sta finendo, ma per incapacità ed inesperienza non siamo in grado di applicare la tua clemente direttiva riguardo all’utilizzazione dei cadaveri per il riscaldamento.

Allegati:

a) lo schema della grande macchina “soldato-cupola”;

b) campioni della stoffa incollata dagli sconosciuti sopra le ferite dei criminali».

— Sì, non c’è niente di nuovo, — concluse Anton.

— Qui siamo in piena età feudale, — disse Saul. — Non perda tempo a far cerimonie, se non si vuole poi ritrovare con una picca nella pancia.

Ma chi ha voglia di stare a far cerimonie, pensava Vadim. E certo non per via delle picche. Il prigioniero all’improvviso si agitò sul sedile e implorò con rozza voce di basso:

— Ringa

— Sentu ! — sibilò lentamente Vadim.

Il prigioniero restò impietrito.

— Vuole ancora della marmellata, — disse Vadim.

— Si rassegnerà, — disse Saul. — «Mangiare e bere, spaccare il muso…»

Non fa niente, — disse Vadim. — Vedrete che finirà anche lui per desiderare strane cose.

— Vadim, passami un paio di cristalli, — chiese Anton. — Voglio parlare con lui.

— Prendimeli dalla tasca destra, — rispose Vadim, senza voltarsi.

— Ascolta, Haira, — disse Anton. — Se ti riportiamo al villaggio, il tuo capo lascerà liberi quelli che ti hanno difeso?

— Sì, — rispose in fretta Haira. — Ma voi mi riportate al villaggio?

— Certo che ti riportiamo, — disse Anton. — Ti aspettavi che ti ammazzassimo?

Vadim gettò un’occhiata indietro. Haira aveva ripreso la sua aria altezzosa.

— Il capo è severo, — disse. — Forse non li lascerà liberi e li rimanderà a lavorare nella conca. Però voi potete sperare di restare in vita. Può darsi che vi lasci addirittura liberi di andarvene, se gli darete dei doni preziosi. Ne avete?

— Ne abbiamo, — rispose distrattamente Anton. — Abbiamo tutto.

— Che cosa sta dicendo? — brontolò Saul. — Vadim, dove sono i miei cristalli? Ah, eccoli…

— Forse ci toccherà veramente riscattarli, — proferì Anton sovrappensiero. — Non scateneremo certo una zuffa… Non ne ho nessuna voglia.

Haira si mise di nuovo a parlare, e la sua voce era ferma e stridula.

— E a me darete questo giubbotto, — indicò la casacca di Saul.

— E questa cassa, — mostrò l’analizzatore. — E tutta la marmellata. Tanto vi leveranno tutto, prima di mandarvi nelle baracche. Avete fatto bene a decidere di non scatenare una zuffa. Le nostre lance sono aguzze e dentellate, e quando vengono ritirate dopo il colpo, si tirano dietro tutte le interiora del nemico. E prenderò anche queste scarpe. E anche queste. Perché tutto ciò che si trova fra la terra e il cielo appartiene alla Grande Rupe Potente. E prenderò anche questo.

Haira tacque, sovrappensiero. Vadim, che si stava divertendo di cuore, si girò a guardarlo. Anton guardava attento dal finestrino, era chiaro che non aveva sentito. Haira, seduto per terra, a gambe incrociate, gli guardava le scarpe. Saul fissava Haira, reggendosi sulla tempia uno dei cristalli. Dalla faccia si vedeva che era furibondo. Colta un’occhiata di Vadim, abbozzò malamente un sorriso. Haira continuò, col tono di chi sta spiegando qualcosa:

— Quando vi svestiranno, non dimenticate di dire che questo, — e mostrava col dito, — e questo e questo sono roba mia. Sono stato io il primo.

— Sta’ zitto, — disse piano Saul.

— Sta’ zitto tu, — ribatté Haira con dignità. — Altrimenti ti bastoneremo a morte.

— Saul, — disse Anton. — La smetta. Non faccia il bambino…

— Sì, è stupido, — commentò Haira. — Ma ha una bella casacca.

Ma guarda, è proprio sicuro di averci in pugno, pensò Vadim. Vede già come ci denuderanno, come ci spingeranno nella conca, come dormiremo sul pavimento di terra coperto di feci, e staremo sempre zitti, e lui ci farà correre scalzi sulla neve e ci punzecchierà con la sua picca, e ci darà dei ceffoni per farci correre più in fretta.

E intorno a noi, uomini che pensano solo a se stessi, che sognano solo di infilare il dito in quel foro che metta in moto la macchina, e allora saranno aggiogati, felici e contenti, a una slitta che porteranno al di là dei colli nevosi, sollecitati dalla punta della picca, per raggiungere la libertà di cui si può godere ai piedi del trono della Grande Rupe… Vadim si morse il labbro con tanta violenza da vedere le stelle. Vorrei fargliela io la festa, pensò con odio. Era uno strano sentimento, l’odio. Lo riempiva di gelo e gli faceva tendere i muscoli. Non gli era mai capitato prima di odiare qualcuno. Sentì che alle sue spalle Saul sbuffava feroce e Haira miagolava una canzone.

In basso comparve la conca fangosa. Sul fondo erano sparse in disordine le macchine, divenute assurdi e barbari strumenti d’umiliazione e di morte. Era colpa degli alieni, pensò Vadim. Ma che cosa gli si poteva rimproverare? Non erano nemmeno umanoidi. Erano acqua del cielo… Marmellata…

Scese di quota e, frenando, seguì la strada fino alla casetta dei guardiani. Haira, riconosciuto il posto, proruppe in strilli di gioia che neppure il potente analizzatore riuscì a interpretare.

Davanti alla casetta c’era una folla. La neve luccicava nella luce verdastra dell’alba. Gli ex graziati, nudi e miserevoli, erano raccolti in gruppo nella neve, e aspettavano a capo chino. Intorno a loro, appoggiati alle picche, a gambe larghe, stavano i guardiani in pelliccia. Sulla veranda torreggiava il portatore di ottima spada. Teneva l’ottima spada vicino all’orecchio e faceva scorrere il polli. ce sul filo della lama. Quando si accorse del bioplano che scendeva, restò immobile, con la bocca spalancata.

Vadim fece atterrare il bioplano proprio davanti alla veranda. Aprì l’oblò e gridò:

— Kaira-me sorinata-mu! Tatimata-ne kori-su!

Abbandonò il posto di pilotaggio, prese Haira per la vita e lo mise in piedi sui gradini della veranda. Il capo abbassò la spada e chiuse la bocca con uno scatto secco. Haira curvò la schiena e gli si accostò rapidamente a piccoli passi.

— Com’è che non ti hanno ancora ammazzato? — chiese il capo stupito.

Haira incrociò le braccia sui petto e tubò in risposta:

— È avvenuto quel che doveva avvenire! Ho raccontato loro della grandezza e della potenza della Grande Rupe, della Battaglia Scintillante, di colui che posa un piede nel Cielo e che vivrà quanto le macchine, ed essi si sono bagnati addosso per la paura. Mi hanno nutrito con un cibo gustoso e mi hanno parlato come dei sottoposti e sono venuti qui per inchinarsi al tuo cospetto.

I portatori di lancia si erano rispettosamente raccolti presso la veranda. Soltanto i condannati nudi non si erano mossi, aspettando rassegnati l’esecuzione. Il comandante rinfoderò la spada con pomposa lentezza. Non guardò più il bioplano. Si mise ad interrogare Haira in tono calmo e indifferente.

— Dove vivono?

— Hanno una grande casa nella pianura. Molto calda.

— Dove hanno preso questa macchina?

— Non so. Probabilmente sulla strada.

— Dovevi dirgli che tutto il cielo e tutta la terra appartengono alla Grande Rupe Potente.

— Gliel’ho detto. Ma le scarpe, una giubba e una cassa lucente appartengono a me. Non lo dimenticare poi, mio glorioso e forte.

— Sei uno stupido, — disse il capo con disprezzo. — Tutto appartiene alla Grande Rupe Potente. E tu avrai solo quello che ti spetterà. Dov’è il messaggio?

— Me l’hanno preso, — disse Haira, deluso.

— Due volte stupido. Questo ti costerà la pelle.

Haira si rabbuiò. Il capo lanciò un’occhiata vaga nello spazio fra Vadim ed Anton e disse:

— Che mostrino le scarpe.

Saul ringhiò e fece per uscire dal bioplano.

— Calma, calma, — disse Anton.

Il capo si soffiò melanconicamente il naso con le dita.

— E che cibo hai mangiato? — chiese.

— Marmellata. Cioè una specie di marmellata. È dolce e rallegra il palato.

Il capo parve riaflimarsi un poco.

— E ne hanno molta di questa roba?

— Moltissima! — gridò con entusiasmo Haira. — Però non farmi battere.

— Ho deciso, — disse il capo. — Che tornino a casa e mi portino tutta la marmellata e tutto il cibo che hanno. Non hanno carbone?

Haira guardò interrogativo Anton. Anton disse brusco:

— Esigi la libertà di quei condannati!

— Che dice? — chiese il capo.

— Chiede di non uccidere quei delinquenti.

— E come fai a capire quello che dice?

Haira indicò con entrambe le mani i cristalli mnemonici sulle sue tempie.

— Se ci si appoggia queste cose alla testa, si capisce il linguaggio degli altri come se fosse il proprio.

— Dammele, — ordinò il capo. — Anche queste sono proprietà della Grande Rupe Potente.

Tolse i cristalli ad Haira e dopo qualche tentativo infruttuoso riuscì ad applicarseli alla fronte. Anton disse subito:

— Lascia immediatamente liberi questi uomini che hanno meritato la libertà.

Il capo lo guardò stupito.

— Non puoi parlare così, — disse. — Ti perdono perché sei un plebeo e non conosci la mia lingua. Ora va’ a prendere tutto e ricordati di portare anche la lettera ed il disegno. — Si voltò verso i portatori di picche che l’ascoltavano con rispetto e urlò: — Che cosa volete voi qui, necrofili? Volete annusare le loro brache? Le brache di tutti quelli che parlano con me puzzano nello stesso modo! Andate a lavorare! Portate questa marmaglia nella conca. Via! Via!

I portatori di picche corsero via ridacchiando. Gli ex liberati, sospinti da loro, li precedevano lungo la strada. Il capo appioppò ad Haira un manrovescio che voleva essere amichevole e gli ordinò di levarsi di torno. Haira barcollò sotto il colpo e si precipitò a casa. Rimasto solo, il capo volse lo sguardo prima al cielo poi alle baracche, sbadigliò a lungo e rumorosamente, lanciò un’occhiata al bioplano, sputò a terra, e disse con voce annoiata, guardando altrove:

— Fate come vi ho detto. Tornate a casa e portatemi qui tutta la marmellata e gli altri cibi e andate nella conca, se volete restare vivi.

Vadim guardava quell’enorme corpo sudicio e provava una strana debolezza in tutte le membra. Si sentiva come se stesse tentando di scalare in sogno una ripida parete scivolosa. Anton gli mormorò ad un orecchio:

— Sta’ attento, Dimka. Non è un ragazzino come Haira.

— Non resisto più, — disse Saul con una strana voce incolore.
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