VIII

VIII

— Dimka, — disse Anton, — va’ a vedere come sta Saul.

Vadim si alzò e uscì dalla sala dei comandi. Scese nel quadrato ed andò a dare un’occhiata nella cabina di Saul. Era piena di fumo. Saul giaceva sul divano, nella stessa posizione in cui l’avevano messo dopo il salto subspaziale. Vadim gli si sedette accanto e gli toccò la fronte. Scottava. Saul borbottava confusamente:

— Gallette… abbiamo bisogno di gallette… Ma perché mi portate le forbici? Sono da sarto… non sono mica forbicine da manicure… Io vi chiedo le gallette… e voi mi portate le forbici… — sussultò all’improvviso e riprese con voce stridula: — Zum befail , signor capoblocco… Nossignore, stiamo ammazzando i pidocchi.

Vadim gli accarezzò una mano inerte. Stringeva il cuore guardare Saul. Addolora sempre vedere in tali condizioni un uomo forte e sicuro di sé. Saul aprì lentamente gli occhi.

— Ah… — disse. — Vadim… Dimoška… Non devi credere chissà che cosa… Gli interrogatori non sono mai una cosa piacevole… Non devi pensar male di me… Tornerò… È stato semplicemente un momento di debolezza… Ma adesso mi sono un po’ riposato e tornerò… Sbarrò gli occhi. Vadim lo guardava con compassione.

— Stiamo bruciando di nuovo… — borbottò Saul. — Bruciamo come legna. Stepanov sta bruciando! Presto, nel bosco, nel bosco!

Vadim sospirò e si alzò. Si guardò intorno. Nella cabina c’era un terribile disordine. La strana borsa di Saul era caduta sui pavimento, aprendosi. Il contenuto si era sparpagliato: strane cartelle di cartone grigio, piene di fogli, decorate con la raffigurazione stilizzata di un uccello con le ali spalancate. Una si era aperta ed i fogli si erano sparsi per tutta la cabina. Anche sul tavolino c’erano dei fogli. Vadim voleva mettere un po’ d’ordine, ma si accorse che Saul si era addormentato. Allora uscì in punta di piedi e chiuse piano dietro di sé la porta.

Anton era seduto davanti al quadro dei comandi con le dita posate sui contatti, e guardava pensieroso lo schermo visore. Sullo schermo passavano lentamente cime di pini, lontane case illuminate, e le luci rosse degli impianti.

— Sta male, — disse Vadim. — Delira. Però adesso si è addormentato.

Si sedette sul bracciolo di una poltrona e si mise a guardare una parete coperta di disegni raffiguranti figure umane ed oggetti.

— Avrei potuto fare a meno di sporcare la parete, — disse. — Avrei potuto chiedere un po’ di carta a Saul. A quanto pare la sua borsa ne è piena. A proposito, Haira si mise a singhiozzare di paura, quando cominciai a fare questi disegni…

— Sai, Dimka, — disse Anton sovrappensiero. — Saul è senz’altro un tipo strano, ma non capisco come abbia fatto ad arrivare alla sua età senza mai farsi sottoporre al blocco biologico… — scosse il capo.

— Quale malattia credi che abbia?

— Ti ho già detto che non lo so. Haira gli avrà attaccato qualche infezione.

Vadim si immaginò quale tipo di infezione Haira potesse attaccare, fece una smorfia e scivolò nella poltrona.

— Saul mi piace, — dichiarò. — Ha i suoi strampalati punti di vista e li sostiene. Ed è tanto misterioso che mi entusiasma. Non ho mai sentito un delirio tanto incomprensibile.

— Ma chi hai mai sentito delirare?

— Che c’entra! Ho letto qualcosa in proposito. Fra l’altro, Saul ha detto che la sua fuga dalla Terra è stata il frutto di un momento di debolezza e che adesso, dopo essersi riposato, tornerà indietro. Mi fa piacere per lui, Toška.

— Te l’ha detto mentre delirava?

— No, per un po’ è tornato in sé. — Vadim guardò lo schermo. L’astronave stava sorvolando la borgata Chibiny. — Quanto tempo ti sembra sia passato da quando siamo partiti?

— Mille anni, — disse Anton.

Vadim ridacchiò.

— Non sono state vacanze monotone. Ne abbiamo viste di belle, non è vero? — sorridendo beatamente si mise a ricordare gli episodi eroici che avrebbe raccontato l’indomani a Nelly e Samson. Avrebbe battuto Samson senza dover esibire crani: sarebbe bastata la cicatrice.

— Peccato, — disse a voce alta.

— Che cosa?

— Peccato che mi abbia colpito al fianco. Una cicatrice in faccia, dalla tempia sinistra al mento, sarebbe stata un’altra cosa. Te la figuri?

Anton lo guardò.

— Sai, Dimka, — disse, — credo che non riuscirò mai ad abituarmi alle tue uscite.

— Non pensarci Anton. Non sei stato male neanche tu. Eri solo un po’ troppo indeciso, incerto… Racconterò a Galja che bravo comandante tu sia!

Anton fece una smorfia.

— No, è meglio che non racconti nulla, — fece una pausa. — Davvero si vedeva che non sapevo che pesci prendere?

— Secondo me, sì.

— Cerca di capire, non sapevo come comportarmi. Non mi ero mai trovato davanti ad un rompicapo come questo. Ne ho viste di tutti i colori, ma non mi era mai capitato di finire in una situazione in cui si debba fare qualcosa e non si possa far niente. Volevo migliorare qualcosa, ma capivo che non potevo combinare che guai… Era naturale che fossi sulle spine.

Vadim guardava la borgata.

— Però sei stato lo stesso un bravo comandante. Non ti avevo mai visto in questa parte… Chissà cosa starà facendo Haira? Mi sa che è sdraiato sulle pellicce puzzolenti e pensa alle belle scarpe che ha avuto a portata di mano… Di’, non puoi accelerare?

— No, qui è vietato.

— E tu dai retta ai divieti?… Fai pilotare me.

— Non se ne parla nemmeno, — disse Anton. — Ne ho già combinate abbastanza per perdere la patente di pilota.

— E che cosa hai combinato?

— Lasciamo perdere… Quel che è fatto è fatto. Puoi star certo che il pianeta Saul mi rivedrà non come pilota patentato, ma come mediocre dilettante di medicina.

Vadim si meravigliò. Che cosa avevano mai fatto? Soltanto il possibile ed il necessario. In fin dei conti non erano che in tre. Se fossero stati una ventina, avrebbero disarmato le guardie e l’avrebbero fatta finita. In ogni caso, di che cosa potevano essere rimproverati? Certo, avevano danneggiato il gruppo incaricato di trasportare Haira. Ma chi l’avrebbe potuto prevedere? C’era poco da dire: avevano compiuto un ottimo lavoro di esplorazione. Ne erano usciti con onore. Ora si trattava di rimboccarsi le maniche e di trovare le persone adatte. Per prima cosa, sarebbe stato costituito un comitato. Ovviamente, lui ed Anton ne sarebbero stati membri. Saul si sarebbe lasciato convincere. Non si poteva fare a meno di Saul: la presenza di uno scettico era indispensabile. Inoltre era combattivo e risoluto: i suoi studi sul XX secolo gli avevano modellato il carattere. Avrebbero preso anche Samson. Benché linguacciuto, era pur sempre un ottimo ingegnere. Nelly, da attrice qual era, avrebbe incantato i Sauliani. Un altro membro indispensabile era Grigorij Barabanov. Intanto faceva l’insegnante, e poi conosceva una caterva di altri insegnanti, che sembravano proprio brave persone… Ed il medico? C’era bisogno di un medico… Non poteva essere che in quella caterva di insegnanti non se ne trovasse nessuno specializzato in medicina. E c’era bisogno anche di cacciatori. Sì, erano indispensabili per sterminare quegli uccellacci dal becco ricurvo. Vadim ridacchiò. E poi il comitato avrebbe rivolto un appello a tutta la Terra…

A Vadim l’idea della vastità del progetto dava delle piacevoli vertigini. Sarebbero partite intere squadre di astronavi Delta, stracariche di giovani audaci, di medicinali, di sintetizzatori di cibo. Sarebbero state trasportate tonnellate di embrioni meccanici, che in mezz’ora si sarebbero trasformati in case, bioplani, stazioni meteorologiche ed altro ancora. Lui, Vadim, avrebbe trovato mille, diecimila, centomila nuovi amici!

— La flotta spaziale è in missione, — annunciò Anton.

— Come?

— Ho detto, la flotta spaziale è in missione. Ho fatto i conti: per cominciare, sarebbe necessario mandare una dozzina di astronavi Spettro. Però tutte le cinquantaquattro Spettro esistenti sono concentrate presso la EN-117 per il salto al di là della Macchia Cieca.

— Ne costruiremo delle altre, — decise Vadim.

Anton gli lanciò un’occhiata in tralice.

— Vaneggi, tanto per cambiare… Comunque, Dimka, è difficile che ti lascino tornare su Saul.

— Come sarebbe a dire: che mi lascino?

— Molto semplice. Il pianeta Saul non ha bisogno di ventenni pasticcioni ma di specialisti seri. Credi che la Terra possa privarsi di tanti specialisti?… E questo non è che la metà del problema.

— Forza! — l’incitò Vadim. — Parlami dell’altra metà.

Anton sospirò.

— Da un paio di centinaia di anni c’è un ente che non fa parlare molto di sé. È la Commissione per le Relazioni Extraterrestri. Senza il suo benestare nessun astronauta può pilotare niente. In questa Commissione non ci sono pasticcioni. C’è gente seria ed intelligente, che sa vedere le conseguenze.

Anton non scherzava, ma per ogni evenienza Vadim gli chiese:

— Dici sul serio?

— Altro che! — Anton fece scorrere un dito sui comandi ed aggiunse:

— Magari ti faccio guidare durante l’atterraggio, per consolarti… No, meglio di no. Ne ho abbastanza di cadaveri.

La navicella atterrò delicatamente nella stessa radura da dove era decollata trentanove ore prima. Anton spense il motore e per un po’ rimase seduto, accarezzando il cruscotto.

— Ebbene, — disse, — prima di tutto occupiamoci di Saul.

Vadim, rabbuiato, guardava dritto davanti a sé. Anton accese la ricetrasmittente di bordo e si collegò al servizio di pronto soccorso.

— Ambulatorio numero undici barra undici, — disse una tranquilla voce di donna.

— Abbiamo bisogno di un epidemiologo, — disse Anton. — Un uomo si è ammalato dopo una visita ad un pianeta di tipo terrestre.

Per qualche minuto la radio tacque. Poi una voce stupita chiese:

— Scusi, come ha detto?

— Vede, — spiegò Anton, — il malato non era stato sottoposto al blocco biologico.

— Strano. Va bene… la sua posizione?

— Eccola.

— Grazie, l’ho segnata. Saremo lì fra dieci minuti.

Anton guardò Vadim.

— Non prendertela, superstrutturalista, passerà. Andiamo da Saul.

Vadim si alzò lentamente. Scesero nel quadrato e videro subito che la porta della cabina di Saul era aperta. Saul e la sua borsa erano scomparsi. Lo skorcer giaceva sul tavolino.

— Ma dov’è? — chiese Anton.

Vadim corse verso l’uscita. Il portello era spalancato. Giungeva dall’esterno il frinire dei grilli nella tiepida notte serena.

— Saul! — chiamò Vadim.

Non rispose nessuno. Vadim non sapeva che fare. Camminò un poco sull’erba morbida. Dove poteva essere andato Saul, malato com’era? Chiamò di nuovo:

— Saul!

E di nuovo nessuno rispose. Soffiava un venticello caldo che accarezzava il volto di Vadim.

— Dimka, — chiamò Anton a voce bassa, — vieni qui.

Vadim tornò verso l’oblò illuminato. Anton gli tese un foglio di carta.

— Saul ha lasciato un biglietto, — disse. — L’aveva messo sotto lo skorcer .

Era un pezzo di grossolana carta grigia, coperta di ditate sporche. Vadim lesse:

«Cari ragazzi! Vi chiedo scusa per avervi ingannato. Non sono uno storico. Sono solo un disertore. Sono scappato fra voi perché volevo salvarmi. Voi non capireste. Mi era rimasto soltanto un caricatore e mi sentivo giù di morale. Ma ora me ne vergogno e torno indietro. Ma voi ritornate su Saul e fate il vostro dovere, io farò il mio. Ho ancora un caricatore intero. Vado. Addio. Il vostro S. Repnin».

— Senti, ma è proprio malato, — disse Vadim, sconcertato. — Corriamo a cercarlo!

— Leggi dall’altra parte, — disse Anton.

Vadim voltò il foglio. A grosse lettere storte c’era scritto:

Al Signor Raportführer Oberscharführer delle SS Wirth

da parte del detenuto n. 658617 capoblocco del n. 6

Rapporto

Riferisco che, a quanto risulta dalle osservazioni da me raccolte, il detenuto N. 819360 non è il criminale comune noto come Saul, ma un ex ufficiale delle forze corazzate dell’Armata Rossa, di nome Savel Petrovič Repnin, raccolto dalle forze dell’esercito tedesco presso Ržev in stato di incoscienza. Mi risulta che stia preparando un’evasione e che faccia parte del gruppo di cui ho parlato nel mio rapporto del mese di luglio del corrente anno 1943. Riferisco inoltre che questo gruppo prepara…

Qui il testo si interrompeva. Vadim guardò Anton.

— Non capisco, — disse.

— Nemmeno io, — disse piano Anton.

Una luce violenta illuminò la radura. L’elicottero sanitario Ogonëk stava scendendo lentamente verso l’astronave.

— Spiega tutto al dottore, — disse Anton con un sorrisetto ironico. — Io mi devo mettere in contatto col Consiglio.

— Che cosa gli spiego? — brontolò Vadim, guardando il pezzo di carta.

Il detenuto n. 819360 giaceva bocconi, col volto immerso nel fango al margine della strada. Stringeva ancora il calcio di una Schmeisser.

— Se l’è cavata con poco, — disse con rincrescimento Ernst Brandt, ancora pallido. — Mio Dio, ho visto le schegge del parabrezza volarmi in faccia…

— Questa carogna ci faceva la posta, — disse l’Obersturmführer Deibel.

Si guardarono intorno. In mezzo alla strada stava ferma l’automobile mimetizzata. Il parabrezza era andato in pezzi, dal sedile anteriore, impigliato nel cappotto, pendeva in fuori l’autista morto. Due soldati portavano via, reggendolo per le braccia, un ferito urlante.

— Deve essere uno di quelli che hanno ucciso Rudolf, — disse Ernst. Fece leva con la punta di uno stivale sotto la spalla del cadavere e lo rivoltò bocconi.

— Donnerwetter, — disse. — Ma questa è la borsa di Rudolf!

Deibel, storcendo il faccione grasso, si chinò, spingendo in fuori l’immenso deretano. Le guance flaccide gli sussultarono.

— Sì, è la sua borsa, — mugolò. — Povero Rudolf. Salvare la pelle nella battaglia di Mosca per poi buscarsi la pallottola di un pidocchioso detenuto…

Si raddrizzò e volse lo sguardo verso Ernst. Ernst Brandt aveva una stupida faccia rubizza e lucenti occhi neri. Deibel si voltò.

— Prendi la cartella, — borbottò, fissando tristemente l’orizzonte, dove, fra gli alberi, si intravedevano le grosse ciminiere dei forni crematori, che diffondevano un nauseabondo fumo grasso.

Ed il detenuto n. 819360 con gli occhi morti spalancati fissava il basso cielo grigio.



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